Mi chiamo Marco Tironi e sono un medico di famiglia e palliativista di Milano. Scrivo assieme a mia moglie, Giovanna Maffoni, di formazione filosofa, con molta preoccupazione e rammarico in merito alla recente notizia della sospensione a divinis del nostro parroco con Giulio Mignani di Bonassola.

Mi rivolgo al vescovo di La Spezia, Luigi Ernesto Palletti, spero che dal canto suo possa trovare il tempo di leggere e considerare queste nostre riflessioni che scaturiscono, oltre che da radicati convincimenti personali, dall’esperienza di cura e di impegno nella comunità che le nostre professioni ci spronano a profondere ogni giorno.

Ritengo che il racconto del nostro fruttuoso incontro con don Giulio Mignani possa essere emblematico e utile ad allargare la visuale su una vicenda che solo a una prima lettura riguarda la tenacia di un singolo sacerdote che lotta per rendere la sua casa più aperta e inclusiva, ma che in realtà riguarda la sopravvivenza della Chiesa stessa.

Il nostro incontro

Abbiamo incontrato Don Giulio Mignani a Bonassola dopo aver ricevuto un niet curiale Donabbondiesco in merito alla celebrazione del nostro matrimonio nella chiesetta della nostra frazione collinare ligure. D’istinto avremmo voluto abbandonare l’idea di sposarci in chiesa: perché far benedire la nostra unione da un’istituzione così sterile e burocratizzata da appellarsi a vetusti editti che impediscono di celebrare un matrimonio in una chiesetta di campagna piuttosto che accogliere i sentimenti di legame dei propri fedeli? Ma Davide e Giuseppe, amici benedetti nel loro amore dal parroco di Bonassola, ci proposero: «Perché, prima di rinunciare, non parlate con don Giulio?»

Arrivò così il nostro incontro fortunato. Da una porta chiusa da parte di una certa Chiesa se ne aprì un’altra, di ben altra Chiesa, tanto più profonda, comune, intima e affine a noi da conferire una vera benedizione alle nostre vite e rendere il nostro incontro fruttuoso.

Nel breve attimo di una serata invernale ritrovammo con don Giulio Mignani i temi cari di una vita intera - mia e di Giovanna - che, nel nostro incontro, ci hanno reso uniti da sempre: lo studio della propria spiritualità, l’eguale dignità di tutte le spiritualità, diverse che siano, l’inclusività e il riconoscimento di tutti i beni derivanti dall’amore tra individui, la possibilità di non dover dare conto alla paura della sofferenza fisica, di poter alleviare il dolore durante il trapasso.

Ci parve sin da subito di parlare con una mente così illuminata, affine e sensibile ai nostri temi - che sono i temi di tutti perché radicati nel nostro essere di passaggio – tanto da volerlo abbracciare sin dal primo incontro, come un buon padre.

Don Giulio Mignani ha aperto per noi la sua Chiesa di collina in San Giorgio a Bonassola, ci ha accolto e fatto conoscere una meravigliosa comunità, creando una comunione che ci ha indotti a tornare da lui a ogni nostro viaggio e a ogni nostro evento familiare, per celebrarlo, condividerlo e ricevere la sua benedizione.

Così è stata fin troppo naturale la scelta di far battezzare nostro figlio Olmo Giovanni da questo meraviglioso, colto e profondo prete dei semplici. «Cari Marco e Giovanna, vi posso dare un solo o suggerimento: educatelo nel nome della tolleranza» ci disse dapprima attraverso una parabola indiana e poi a chiare lettere esortandoci a essere dei bravi genitori. Che consiglio migliore si può ricevere da genitori che si trovano a crescere un figlio in un mondo come il nostro, se non di educarlo nel nome dell’accoglienza e della tolleranza verso l’altro?

La notizia

Ho avuto poi tristemente modo di leggere in queste ore sui giornali in riferimento a don Giulio tante parole al vento che mi feriscono, ancor di più in relazione alla mia professione: «Don Giulio Mignani, sospeso dalla sua stessa Chiesa perché a favore dell’eutanasia», e altre sentenze che come questa sono di una di una banalità sconcertante, offensiva per la ragione di qualunque essere umano.

Chiedo se chi ha preso questa decisione, obbedendo di certo e non per il caso a un preciso momento storico per il nostro paese in cui dare un tale segno di rottura equivale a produrre volontariamente un preciso agito politico, abbia tenuto conto del parere della comunità e della volontà dei fedeli radicati a quel contesto. Perché questo è il risultato: impedire a Don Giulio Mignani di far messa annienta una comunità intera, la comunità di Bonassola, dei suoi componenti intimi vicini e lontani. E anche la Sua Chiesa, egregio monsignore, per sopravvivere e avere un ruolo nella nostra quotidianità ha necessariamente bisogno di quella comunità.

Se don Giulio fosse stato sacerdote in una grande città, ora le piazze sarebbero piene e, volenti o nolenti, vi ritrovereste a fare i conti con questa scelta ingiusta e anacronistica. Ma, “saggiamente”, avete già da tempo circoscritto il suo operato costringendolo in una piccola comunità, le cui forze, per quanto energiche, sono intrinsecamente limitate dal contesto e dai numeri. Il mondo però – vogliate accorgervene al più presto - è già cambiato e non possono di certo essere più questi editti medioevali a fermare una trasformazione già in atto che rappresenta l’unica via per la sopravvivenza e la prosperità di un’istituzione che, anche in questa sua ultima pagina, ha voluto mettere per iscritto sui libri della propria storia, ancora una volta, il suo lato peggiore.

Senza fedeli

Questa perpetua catena di ingiustizie, editto dopo editto, è il motivo per cui nessuno ha più la pazienza di ascoltarvi né di considerarvi; è così che nella decisione della sospensione a divinis non può vedersi null’altro se non l’ennesima conferma delle volontà profonde di questa Chiesa di chiudersi in sé stessa; di ribadire, censura dopo censura, la propria autoreferenzialità; di escludere, venendo meno ai propri principi fondatori e scaraventandosi al di fuori del nostro spazio e dal nostro tempo, le fasce più discriminate, e ben si chiarisca: discriminate da Voi e più da nessun altro in una società che fortunatamente già si è adeguata ai tempi.

Questa Chiesa ricorda tanto una vignetta anacronistica in cui uno stolto divenuto gobbo a forza di curar sé stesso, per difetto di umiltà ed eccesso di servilismo preferisce inciampare a terra e picchiare il muso piuttosto che far attenzione ai piedi che camminano già da tempo su un terreno non più suo.

È così che non andremo più alle vostre messe e non riterremo più necessari i vostri sacramenti privi ormai di significato se scaturiti dall’alto di quei presupposti di chiusura; è così che vedrete fare agli altri fedeli in virtù delle ragioni che sono le ragioni di una comunità intera; li vedrete fuggire uno a uno, ognuno con il potente carico della propria spiritualità superiore ai vostri editti, ai vostri divieti e alle vostre punizioni.

I pochi rimasti si chiuderanno sempre di più nel proprio infelice rifiuto l’uno dell’altro e quando si perderà la memoria di quelle parole e di quei riti sempre più stanchi, obsoleti e meccanici non resterà più nessuno a pronunciare quell’amen che suggella la passiva accettazione di un lessico divenuto ormai alle nuove generazioni incomprensibile.

Sarà così vostra l’inesorabile perdita, perché avete scelto nel momento in cui c’era un gran bisogno di voi di perdere l’occasione di far parte della storia, voltando le spalle a una crescente richiesta di autentiche voci spirituali. Per quanto tempo allora questa Chiesa dovrà ancora calpestare le proprie ceneri prima di riconoscere, accettare, accogliere e prendere parte alla vita reale dei nostri tempi?

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