In piena crisi politica e sanitaria i grandi assenti dal dibattito sono proprio i giovani a cui tutti parlano e offrono promesse, ma mai risposte. Si ripete sempre che le generazioni di oggi saranno il futuro ma, secondo me, saremo abbastanza fortunati se riusciremo a sopravvivere al domani. Non è un mistero che il debito fatto oggi con la pandemia ammonta a una cifra spropositata che pesa sulle esili spalle di chi si affaccia alla vita: gli investimenti sono abbastanza esigui e così quel futuro di cui parlavamo prima si fa sempre più lontano e rischia di essere una vera e propria catastrofe.

Non solo l’enorme debito: la nostra generazione sconta anche le carenze di un sistema formativo abbastanza inadeguato per i tempi in cui ci troviamo. Basta ricordare che l’attuale sistema scolastico è nato per rispondere alle esigenze di un contesto sociale in cui si passava dall’analfabetismo all’alfabetizzazione dell’Italia, dall’era agricola a quella industriale, dalla forte presenza di piccoli paesi e comuni alle creazioni di grandi metropoli. La scuola ci propone materie importanti ma non vitali e strategiche. 

Sembrerà una banalità ma capire come in futuro dovremo gestire il nostro denaro è sicuramente molto più importante che sapere a memoria centinaia di poesie. La scuola dovrebbe proiettarci verso le professioni del futuro compiendo dei veri e propri passi da gigante nella digitalizzazione ma in Italia, secondo voi, come può avvenire questo con la classe docente più vecchia del mondo? L’ultimo rapporto dell’Ocse sull’istruzione, “Education at a glance 2019”, lo dice in modo chiaro e inequivocabile: abbiamo la quota più alta di docenti ultra 50enni tra i Paesi dell’Ocse, ben il 59 per cento.

La stessa Ocse ci dice che dovremmo rinnovare circa la metà del nostro corpo docente nel prossimo decennio. Ma c’è un problema: l’Italia ha la quota più bassa di insegnanti nella popolazione di età compresa tra i 25 e i 34 anni. Sono solo lo 0,5 per cento del corpo docenti, contro il 3 per cento dei 50-59enni. Questo per esempio è stato un fattore che ha inciso molto sulla didattica a distanza che, da elemento innovativo, è stata trasformata in una semplice riproposizione della normale lezione scolastica.

La colpa? Non sicuramente di tutti i docenti che nonostante la loro età ce l’hanno messa tutta per continuare la loro missione educativa, ma della mancata formazione ricevuta. Capiamo bene come non basta semplicemente parlare di giovani se prima non si punta lo sguardo su problematiche che rischiano di condizionare in maniera negativa un’intera generazione: in primo luogo l’educazione che, insieme al lavoro, dovrebbe essere uno dei fondamenti su cui si dovrebbe basare la nostra Italia.

Per poter far questo e voltare pagina, uno strumento di vitale importanza è il Recovery Plan: dei circa 209 miliardi di cui l’Italia potrà beneficiare occorre, secondo gli esperti, investire almeno il 15 per cento sulle giovani generazioni e sulle startup per proiettare il Paese verso il futuro e colmare il divario rispetto agli stati membri. Ma debito, lavoro, istruzione, recovery, da cosa sono accumunati? Dalla Politica: non quella fatta di poltrone ma quella fatta di investimenti, quella fatta di persone che mettono il loro Paese dinnanzi all’interesse personale.

In questa direzione la figura di Mario Draghi rappresenta sicuramente un porto sicuro, un punto da cui partire e da cui, allo stesso tempo, passa il futuro del nostro Paese e della nostra generazione.

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