Ex governatore della Banca d’Italia, ex presidente della Banca centrale europea, famoso per quel «Whatever it takes» che salvò l’Euro, teorico del quantitative easing e autodefinitosi «socialista liberale»: il nome di Mario Draghi, convocato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Quirinale per provare a formare un nuovo governo dopo la caduta del Conte bis, è legato a doppio filo all’economia e alla finanza. 

Da oggi, l’economista romano proverà a raccogliere una maggioranza stabile in Parlamento che consenta al nuovo esecutivo di raggiungere gli obiettivi fissati dal capo dello stato: affrontare la pandemia evitando elezioni che rischierebbero di far esplodere nuovi focolai, portare avanti il piano vaccini contro il Covid-19, gestire la fine del blocco dei licenziamenti che avverrà a marzo e le trattative con la Commissione europea per l’uso dei fondi del Recovery Fund.

Dalla perdita dei genitori al ministero del Tesoro

Nato nel 1947 a Roma, Mario Draghi è cresciuto in una famiglia benestante. Il padre era un dirigente della Banca d’Italia, la madre una farmacista. I genitori, però, sono morti quando lui aveva 15 anni. Nel 1970 la laurea in Economia all’università La Sapienza di Roma, dove ebbe come relatore uno dei più importanti e influenti economisti italiani della seconda metà del Novecento, Federico Caffè. Poi il trasferimento negli Usa per frequentare il Massachusetts Institute of Technology (MIT), una delle università più prestigiose del mondo.

Anche nella sua esperienza statunitense Mario Draghi è stato a contatto con personalità di spicco del mondo della finanza, tra i quali due premi Nobel: l’economista italiano Franco Modigliani e Robert Solow. Divenuto professore di economia, Draghi ha insegnato in molte università italiane (Trento, Padova, Venezia), prima di avviare la sua carriera pubblica.

Nel 1982 è stato nominato consigliere del ministro del Tesoro e futuro premier, Giovanni Goria. Nel 1991 è arrivata la nomina di direttore generale del Tesoro da parte del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, su proposta del ministro del Tesoro Guido Carli. Negli anni Novanta Draghi è stato protagonista di una serie di grandi cambiamenti del nostro paese dal punto di vista economico: la liberalizzazione dei mercati finanziari, le grandi privatizzazioni, alcune manovre di riduzione del debito pubblico per consentire l’ingresso dell’Italia nell’Euro.   

Il periodo alla Banca d’Italia

Fino al 2001 Draghi è rimasto direttore generale del Tesoro, prima di spostarsi nel settore privato come vicepresidente per l’Europa della banca d’affari Goldman Sachs. A gennaio 2005, poi, la nomina a governatore della Banca d’Italia, ruolo ricoperto qualche anno prima da uno dei suoi maestri: Carlo Azeglio Ciampi. Draghi ha avuto il compito di risollevare Bankitalia da una grave crisi, che seguiva lo scandalo finanziario definito “Bancopoli” e che era costato il posto al governatore uscente, Antonio Fazio, accusato di aver influito in maniera impropria sulle operazioni di mercato per favorire l’acquisto della banca Antonveneta da parte della Banca Popolare di Lodi. 

L’ingresso di Draghi ha coinciso con una riforma del ruolo del governatore, il cui mandato fino a quel momento era vitalizio e che invece è diventato di sei anni, non rinnovabili. L’economista è stato protagonista di diverse acquisizioni, favorite con lo scopo di rendere meno frammentario il sistema bancario italiano: l’acquisto di Capitalia da parte di Unicredit, quello di Sanpaolo IMI da parte di Intesa e quello, molto più problematico, di banca Antonveneta da parte del Monte dei Paschi di Siena nel 2008, il primo passo di quello che diventerà il fallimento dell’istituto.

La Bce, la crisi dell’Euro e il Whatever it takes

Negli anni a Bankitalia Draghi si è fatto notare per la sua austerità economica, con l’obiettivo di ridurre il debito pubblico, tenere a freno l’inflazione, riformare il mercato del lavoro e innalzare l’età pensionabile. Ciò ha favorito senza dubbio la sua nomina a presidente della Banca centrale europea, nel 2011. In quegli anni, tutto il mondo stava ancora affrontando le conseguenze della crisi finanziaria del 2008. In Europa, il debito di alcuni paesi (Grecia, Portogallo, Spagna e Italia) era aumentato così tanto da far temere il loro fallimento: quello che si prefigurava era una serie di default a catena e una grave speculazione sui mercati che poteva mettere a rischio l’unione monetaria.

Nel marzo 2012, quindi, Draghi ha pronunciato uno storico discorso durante un forum di investitori a Londra, annunciando che la BCE avrebbe fatto «whatever it takes» per salvare l’euro: «All’interno del nostro mandato, la BCE è pronta a fare tutto quel che è necessario per preservare l’euro», ha detto, e poi ha aggiunto: «E credetemi, sarà abbastanza».

L’effetto è stato incredibile: gli speculatori hanno capito che Draghi avrebbe messo in campo la capacità della Bce di creare innumerevoli quantità di denaro per evitare la fine dell’Euro. Così, nei giorni successivi, gli spread hanno iniziato a calare. Nel frattempo, Draghi ha messo in atto delle politiche per supportare il suo “whatever it takes»: ha abbassato i tassi di interesse e soprattutto, nel 2014, ha annunciato il Quantitative easing, un piano di acquisto di titoli di stato e di altro tipo dalle banche per immettere nuovo denaro nell’economia europea, incentivare i prestiti bancari verso le imprese e stimolare l’economia: con questo strumento, la BCE ha immesso 60 miliardi di euro al mese per quattro anni.

Il suo mandato è scaduto il 31 ottobre del 2019 e da allora l’economista non si è fatto vedere molto sulla scena pubblica. Tuttavia, nell’ultimo anno il suo nome è stato accostato a molte cariche istituzionali del nostro paese, soprattutto in concomitanza delle (tante) crisi di governo. Stavolta, però, Mattarella è passato ai fatti: sta a Mario Draghi adesso trovare i numeri in Parlamento per poter essere eletto nuovo presidente del Consiglio. 

Il discorso di commiato di Draghi dalla Bce

Di seguito, l’intervento di Mario Draghi in occasione della cerimonia in suo onore alla fine del mandato da presidente della Bce (Francoforte sul Meno, 28 ottobre 2019).

Quest’anno ricorrono i vent’anni dell’unione monetaria, un anniversario di grande significato sotto ogni aspetto. Non molto tempo fa l’economia dell’area dell’euro era segnata da un livello di disoccupazione forse mai osservato dalla Grande Depressione e sorgevano interrogativi fondamentali sulla sopravvivenza dell’euro. Oggi, 11 milioni di persone hanno un lavoro. La fiducia dei cittadini nell’euro è salita al suo massimo storico. In tutta l’area dell’euro i policy maker riaffermano che l’euro è irreversibile.

Tuttavia, credo che l’occasione di oggi serva più a riflettere che a celebrare. L’euro è un progetto fortemente politico, un passo fondamentale verso l’obiettivo di una maggiore integrazione politica, che ha trovato la sua giustificazione economica nella situazione precaria delle economie europee nella metà degli anni ’80. La disoccupazione era aumentata dal 2,6% nel 1973 al 9,2% nel 1985 e nei 12 paesi che avrebbero poi formato l’area dell’euro si era registrato un rallentamento significativo della crescita.

I leader lungimiranti dell’epoca, però, credevano che l’Europa avesse uno strumento efficace per rilanciare la crescita: trasformare il mercato comune in mercato unico. Rimuovere le barriere al commercio e agli investimenti poteva invertire il calo del potenziale economico e creare più posti di lavoro. Ma il mercato unico è sempre stato un progetto più ampio; mirava anche a garantire una rete di protezione capace di sostenere i costi sociali del cambiamento che ne sarebbe inevitabilmente derivato. Consentì all’Europa, a differenza di quello che accadeva su scala globale, di imporre i propri valori al processo di integrazione, di costruire cioè un mercato che fosse, per quanto possibile, libero e giusto. Regole comuni favorivano la fiducia tra i paesi, fornivano ai deboli i mezzi per proteggersi dai forti e tutelavano i lavoratori.

In questo senso, il mercato unico è stato un tentativo coraggioso di “gestire la globalizzazione”. Ha coniugato concorrenza e livelli, unici al mondo, di tutela dei consumatori e di previdenza sociale. Ma c’era una prassi scorretta che il mercato unico non poteva proibire: le svalutazioni competitive. Tale prospettiva comprometteva la fiducia reciproca, cruciale per far sopravvivere il mercato unico e far progredire il progetto di una maggiore integrazione politica.

La libera fluttuazione delle valute non era pertanto un’opzione praticabile e i tassi di cambio fissi non funzionavano, data la maggiore mobilità dei capitali in Europa, come dimostrato dalla crisi degli Accordi europei di cambio nel 1992-1993. La risposta fu la creazione di una moneta unica per un mercato unico.

Il progetto è sostanzialmente riuscito nel suo intento: i redditi sono aumentati considerevolmente in tutto il continente, l’integrazione e le catene di valore hanno raggiunto livelli inimmaginabili 20 anni fa e il mercato unico ha superato indenne la peggiore crisi dagli anni ’30. Tuttavia gli ultimi 20 anni ci offrono due insegnamenti essenziali per il successo dell’unione monetaria.

Il primo riguarda la politica monetaria. Quando è stata istituita la BCE, la sua principale preoccupazione era il contenimento dell’inflazione. La BCE era una nuova banca centrale priva di esperienza; il quadro di riferimento della sua politica monetaria fu pertanto elaborato con l’intenzione esplicita di promuovere una solida credibilità antinflazionistica. L’obiettivo fu raggiunto rapidamente ed è per il grande merito dei primi leader della BCE che i dieci anni dall’inizio della sua attività sono trascorsi senza difficoltà.

Nessuno però avrebbe potuto prevedere che il contesto mondiale della politica monetaria sarebbe mutato bruscamente di lì a poco, con il trasformarsi delle forze inflazionistiche in spinte deflazionistiche. In tutte le economie avanzate si rese necessario definire un nuovo paradigma per le banche centrali, costituito da due elementi: la determinazione di contrastare con la stessa forza sia la deflazione sia l’inflazione e la flessibilità nella scelta degli strumenti da impiegare.

Nel nostro caso, la BCE ha dato prova di non accettare le minacce alla stabilità monetaria causate da timori infondati sul futuro dell’euro. Ha dimostrato che combatterà con lo stesso vigore i rischi per la stabilità dei prezzi, tanto quelli al ribasso quanto quelli al rialzo. E ha stabilito che ricorrerà a tutti gli strumenti nell’ambito del suo mandato per poterlo assolvere, senza mai oltrepassare i limiti della legge.

La Corte di giustizia europea ha affermato la legalità delle misure da noi adottate e ha confermato l’ampia discrezionalità di cui gode la BCE nell’utilizzo di tutti i suoi strumenti, ove necessario e in modo proporzionato, per il conseguimento del proprio obiettivo. È stata una sentenza determinante, poiché erano in gioco le caratteristiche essenziali della banca centrale che la BCE era diventata e che la maggior parte dei cittadini europei si aspettava: una banca centrale moderna capace di impiegare tutti i suoi strumenti in funzione delle sfide da affrontare e un’istituzione autenticamente federale che agisse nell’interesse di tutta l’area dell’euro.

Il secondo insegnamento riguarda l’assetto istituzionale dell’UEM. L’area dell’euro si fonda sul principio della “predominanza monetaria”, in base al quale la politica monetaria deve incentrarsi esclusivamente sulla stabilità dei prezzi e non deve mai essere subordinata alla politica di bilancio. Ciò non preclude che si possa comunicare con i governi laddove sia chiaro che un allineamento fra le politiche consentirebbe un ritorno più rapido alla stabilità dei prezzi. Pertanto, l’allineamento fra le politiche, ove necessario, deve servire a conseguire la stabilità monetaria e non dovrebbe agire a suo discapito.

Oggi ci troviamo in una situazione caratterizzata da bassi tassi di interesse che non forniscono più lo stesso grado di stimolo registrato in passato, a causa della diminuzione del rendimento sugli investimenti nell’economia. La politica monetaria può ancora raggiungere il suo obiettivo, ma può farlo in maniera più rapida e con minori effetti collaterali se le politiche di bilancio sono a essa allineate. Da novembre 2014, infatti, la BCE pone sempre più enfasi sulla combinazione delle politiche macroeconomiche nell’area dell’euro. Una politica di bilancio più attiva nell’area consentirebbe l’aggiustamento più rapido delle nostre politiche e determinerebbe tassi di interesse più elevati.

Nella nostra unione monetaria, sono le politiche nazionali a svolgere il ruolo principale nella stabilizzazione di bilancio, in misura maggiore rispetto alle politiche a livello statale negli Stati Uniti. Ma le politiche di bilancio nazionali non sempre possono garantire il giusto orientamento per tutta l’area dell’euro. Il coordinamento delle politiche di bilancio decentrate è per sua natura complesso. Politiche non coordinate non bastano, in quanto gli effetti di propagazione tra i paesi delle politiche espansive sono relativamente bassi.

Per questo l’area dell’euro ha bisogno di una capacità di bilancio di entità e struttura adeguate: sufficientemente ampia per stabilizzare l’unione monetaria, ma pensata in modo tale da non creare un eccessivo azzardo morale. Non esiste una soluzione perfetta. Nella condivisione dei rischi l’azzardo morale non può essere eliminato del tutto, può però essere contenuto considerevolmente tramite un impianto adeguato. Al tempo stesso, va anche riconosciuto che la condivisione dei rischi può contribuire alla loro riduzione.

La creazione di un’unione dei mercati dei capitali, che accrescerebbe la condivisione dei rischi nel settore privato, ridurrebbe in misura considerevole quella parte di rischi che deve essere gestita da una capacità di bilancio centrale. Questa diminuirebbe a sua volta i rischi per tutta l’unione quando le politiche nazionali non sono in grado di svolgere il proprio ruolo. In altre regioni in cui la politica di bilancio ha assunto maggiore rilevanza dopo la crisi, abbiamo osservato che la ripresa è iniziata prima e il ritorno alla stabilità dei prezzi è stato più rapido. Gli Stati Uniti avevano in media un disavanzo del 3,6% dal 2009 al 2018, mentre l’area dell’euro registrava un avanzo dello 0,5%.

In altre parole, gli Stati Uniti godevano sia di un’unione dei mercati dei capitali, sia di una politica di bilancio anticiclica. L’area dell’euro non disponeva di un’unione dei mercati dei capitali e aveva una politica di bilancio prociclica. Il cammino verso la capacità di bilancio sarà molto probabilmente lungo. La storia ci insegna che i bilanci raramente sono stati creati per il fine generale di stabilizzare, ma piuttosto per conseguire obiettivi specifici nel pubblico interesse. Negli Stati Uniti è stata la necessità di superare la Grande Depressione a determinare l’espansione del bilancio federale negli anni ’30. Forse, per l’Europa, vi sarà bisogno di una causa pressante come l’attenuazione dei cambiamenti climatici per realizzare questa dimensione collettiva.

Quale che sia il percorso intrapreso, risulta evidente che ora è tempo di più e non di meno Europa. Non lo intendo come un assioma, ma nella più autentica tradizione del federalismo. Quando i risultati possono essere conseguiti meglio dalle politiche nazionali, lasciamo le cose come sono. Ma quando possiamo rispondere ai legittimi timori dei cittadini solo lavorando insieme, l’Europa deve essere più forte. Per noi europei, in un mondo globalizzato, una vera sovranità che soddisfi il bisogno personale di sicurezza e prosperità può essere realizzata solo lavorando insieme[6]. Come ha affermato la Cancelliera Merkel, “noi europei dobbiamo prendere il nostro destino nelle nostre mani se vogliamo sopravvivere come comunità”.

Lavorare insieme ci consente di tutelare i nostri interessi nell’economia mondiale, di resistere alle pressioni di forze esterne, di influenzare le regole globali affinché riflettano i nostri standard e di imporre i nostri valori alle grandi imprese. Nessuno di questi risultati può essere raggiunto nella stessa misura da un solo paese. In un mondo globalizzato condividere la sovranità è un modo di riacquistare sovranità.

Ma riconoscere che dobbiamo esercitare ciò che il Presidente Macron ha definito “sovranità europea”, per agire con efficacia, non significa che oggi abbiamo già le strutture politiche per farlo. Tuttavia, la consapevolezza che queste siano necessarie cresce rapidamente. Lo abbiamo costatato nelle ultime elezioni del Parlamento europeo, forse le prime svoltesi soprattutto su questioni europee. Persino coloro che cercavano di frenare l’integrazione europea lo hanno fatto contestando le istituzioni dell’UE e non rifiutandone del tutto la legittimità.

Questo è solo l’inizio, ma suggerisce che la nostra unione procede nella giusta direzione. Sono certo che continuerà, perché in definitiva è l’interesse dei singoli paesi a tracciare il nostro cammino futuro verso una sovranità europea. L’azione e l’impegno di molti europei, a livello nazionale e dell’UE, ci hanno aiutato a raggiungere questa tappa. Fra questi vorrei menzionare tre gruppi che hanno prestato il loro contributo.

Il primo gruppo è lo staff della BCE e delle banche centrali nazionali.

In molte occasioni durante la crisi la BCE si è trovata in un terreno veramente inesplorato. Abbiamo affrontato, sotto tutti gli aspetti, una situazione economica incredibilmente complessa: non appena superata una sfida, ne emergevano di nuove. Questi anni sono stati intensi per voi e per le vostre famiglie. Ma la vostra dedizione, il successo delle misure che avete sviluppato e la competenza che avete dimostrato in tutto l’Eurosistema nell’attuarle renderanno questi anni memorabili.

Ora tali politiche sono anche patrimonio di tutti i futuri policy maker che affronteranno simili sfide. È un’eredità di cui tutto lo staff dell’Eurosistema può essere fiero. Vorrei quindi esprimere la mia gratitudine per il vostro straordinario impegno, che è stato realmente al servizio della BCE in tempi eccezionali e, dunque, al servizio dei cittadini europei. Il secondo gruppo che vorrei menzionare è quello dei miei colleghi, precedenti e attuali, del Comitato esecutivo e del Consiglio direttivo. Negli ultimi otto anni avete attuato una serie di misure in circostanze eccezionali. Il caposaldo di queste decisioni è stato il vostro coerente e incondizionato impegno nei confronti del nostro mandato.

Avete mostrato ferma determinazione nell’assolvere il vostro mandato restando entro i suoi confini, senza mai cedere alla sconfitta. Potete guardare con soddisfazione a quello che avete raggiunto in condizioni estremamente ardue, consapevoli che avete migliorato il benessere di molti. Ciò che unisce il Consiglio direttivo è sempre stato – e sempre lo sarà – molto più grande di quello che può dividerlo. Tutti noi condividiamo la stessa dedizione al nostro mandato e la stessa passione per l’Europa. Sono certo che questa comune convinzione continuerà a servire la BCE e l’Europa negli anni a venire.

Il terzo gruppo è quello dei leader europei. Abbiamo dovuto assumere misure che talvolta, a prima vista, sembravano controverse e i cui benefici si sono manifestati solo lentamente. La nostra determinazione non è mai venuta meno perché fondata sul solido lavoro del nostro staff, nutrita dall’empatia per coloro che soffrivano e rafforzata dalla convinzione che le politiche avrebbero migliorato la loro situazione.

Ma in tempi simili – e soprattutto in un’unione monetaria composta da più paesi – i leader che hanno saputo guardare oltre la prospettiva nazionale nel valutare la nostra politica monetaria e che hanno riconosciuto la prospettiva dell’area dell’euro, spiegandola ai loro concittadini, hanno fornito un baluardo fondamentale per la nostra indipendenza. Sono grato a questi leader europei, e anche per il risoluto sostegno e incoraggiamento durante tutta la crisi.

Presidente Macron, Presidente Mattarella, Cancelliera Merkel: ci avete immancabilmente sostenuto al Consiglio europeo e nelle sedi internazionali, quando le altre principali banche centrali subivano pressioni politiche sempre più manifeste. Avete respinto con vigore le voci illiberali che avrebbero voluto vederci voltare le spalle all’integrazione europea. In momenti cruciali avete fatto i passi necessari per salvaguardare l’euro e proteggere l’eredità che ci è stata affidata: un’Europa unita, pacifica e prospera.

Per me è giunto il momento di passare il testimone a Christine Lagarde. Sono certo che saprà guidare in maniera eccellente la BCE. Il mio obiettivo è sempre stato assolvere il mandato sancito dal Trattato, perseguito con piena indipendenza e svolto tramite un’istituzione che è diventata una moderna banca centrale, capace di gestire ogni sfida. È stato un privilegio e un onore aver avuto l’opportunità di farlo. Grazie.

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