Duecentomila tonnellate. Questo è il fabbisogno di cobalto per l'anno corrente. Mentre si esplorano nuove fonti in America Latina, la maggior parte di questo minerale (indispensabile nei campi dell'elettronica, delle auto elettriche, delle protesi ortopediche e in altri ancora) continua a essere estratta nella Repubblica democratica del Congo, soprattutto nel sud del paese.  

Qui si trova, infatti, la gran parte delle cosiddette "miniere artigianali", in cui bambine e bambini sono costretti a calarsi in condizioni di sfruttamento estremo. Perdono la salute, l'istruzione, l'infanzia. A volte la vita. Tutt'intorno, squallore miseria e violenza, soprattutto sessuale.

La Cina, con l'azienda Huayou Cobalt, gestisce praticamente in monopolio la lavorazione, la raffinazione e l'esportazione del cobalto dallo stato africano.  

Da anni le organizzazioni per i diritti umani si occupano della catena dei fornitori. Amnesty International e Afreewatch, nel 2016, hanno iniziato a chiamare in causa le multinazionali che si riforniscono di cobalto: prima quelle dell'elettronica, poi quelle delle auto elettriche. Hanno chiesto loro trasparenza, responsabilità aziendale, valutazione del rischio di violazioni dei diritti umani. Le risposte, con poche eccezioni, sono state deludenti. Non c'è un sistema vincolante, al giorno d'oggi, che possa imporre alle aziende di rendere conto della provenienza di quelle 200.000 tonnellate di cobalto.

Mentre la Cina annuncia al mondo che produrrà la prima auto elettrica dotata di una batteria priva di cobalto, diventa sempre più pressante capire a che punto siamo rispetto a chi usa questo minerale per fare profitti miliardari, incurante di far conoscere ai consumatori da dove arrivi e come sia estratto. Per questo un'inchiesta che aiuti a far capire se le condizioni dei bambini minatori sono rimaste sempre le stesse e che interroghi le imprese globali, italiane incluse, che richiedono cobalto nelle loro produzioni, come quella che propone Luca Attanasio, è più che mai necessaria.

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