Giovedì 10 dicembre non è stato un giorno qualunque. Si tratta dell’anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, ed è anche la data di nascita di Alfred Nobel: per questo motivo in questa data, ogni anno, si consegna il premio Nobel per la pace. L’annuncio del vincitore è stato già fatto, qualche settimana fa: in questo 2020, in cui niente è come prima, il premio è stato assegnato al World Food Programme (Il Programma alimentare mondiale, agenzia delle Nazioni Unite), come afferma il Comitato norvegese del Nobel nelle sue motivazioni, anche per avere sottolineato nella loro attività il circolo vizioso tra fame e guerra. “Come la guerra e i conflitti armati possono causare carestie e insicurezza alimentare, allo stesso modo l’insicurezza alimentare e la fame possono far esplodere conflitti latenti e scatenare la violenza”.

La consegna della medaglia

Ieri 10 dicembre sono andata a Roma, alla sede del WFP, per conto del Comitato norvegese del Nobel: sono co-presidente di una organizzazione, l’International Peace Bureau, vincitrice del Nobel nel 1910, e da Oslo hanno chiesto a me di consegnare la medaglia e il diploma del Nobel, poiché nessuno da Oslo era in grado di viaggiare per le restrizioni della pandemia. Un grande onore, senz’altro, ma più importante ancora è sentirsi parte di una grande famiglia, come ci siamo sentiti già tre anni fa, quando siamo andati in tanti a Oslo per un altro Nobel, il premio assegnato a ICAN, la campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari nella quale ci siamo impegnati in centinaia di organizzazioni in tutto il mondo.

Con il premio al WFP abbiamo una nuova opportunità per capire come il nostro impegno “per la pace” si intrecci e si sovrapponga con quello di altri. È stato per me illuminante capire che due anni fa, nel maggio 2018, il WFP è stato determinante nel far approvare al Consiglio di Sicurezza la Risoluzione 2417, che ribadisce la proibizione dell’uso della fame come arma di guerra: pensate al comportamento delle fazioni armate in un conflitto che bloccano l’accesso della popolazione agli aiuti alimentari durante un conflitto, per obbligare i militanti ad arrendersi e la popolazione civile a sottomettersi o a fuggire. In quella risoluzione gli stati membri del Consiglio di sicurezza hanno anche affermato che il mondo non riuscirà ad eliminare la fame dal mondo fino a quando ci saranno le guerre.

La fame come arma

Oggi, ci dice il WFP, ci sono 690 milioni di persone che hanno fame nel mondo, e di queste il 60 per cento vive in zone sconvolte da conflitti armati. Nello Yemen, forse la più grave delle crisi umanitarie in questo momento per la percentuale della popolazione la cui sopravvivenza è a rischio, la fame è il risultato delle azioni umane, è costruita dalle fazioni in guerra. La fame viene usata come arma di guerra, come strumento per il controllo delle popolazioni.

Ma il WFP ha creato anche un settore di ricerca per capire in che modo le loro azioni posso avere un impatto positivo sulla costruzione della pace nelle zone dove operano. Si sono alleate con i ricercatori del SIPRI (l’Istituto di ricerca sulla pace di Stoccolma), gli stessi che forniscono a tutti noi, attivisti per la pace e il disarmo, i dati sulla militarizzazione e sul commercio degli armamenti. In un contesto di tensioni tra popolazioni che si contendono l’uso di uno stesso corso d’acqua per irrigare i campi, per esempio, il WFP ha fornito gli strumenti per la ricostruzione dei canali a beneficio di ambedue le parti: ciò  ha aumentato la disponibilità dell’acqua e quindi la produzione agricola, smorzando le tensioni e contribuendo a prevenire il conflitto interetnico. In altri luoghi ha messo in opera processi partecipativi per la distribuzione degli aiuti, migliorando così il rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni locali. Insomma, il WFP non guarda solo a risolvere il problema immediato delle pance vuote.

Questa novità rispecchia anche l’evoluzione delle organizzazioni che si occupano di prevenzione dei conflitti e di disarmo, di monitoraggio delle violazioni dei diritti umani e degli accordi internazionali.  Stiamo tutti capendo che ognuna delle nostre organizzazioni svolge un pezzetto del lavoro necessario, e che insieme ci avvicineremo all’impegno fondante delle Nazioni Unite, quel “determinati a salvare le future generazioni dal flagello della guerra”.

Più guerre e meno aiuti

Per adesso però il problema immediato del WFP aumenta, con le guerre che si diffondono.  Nel discorso di accettazione del premio Nobel, il direttore esecutivo David Beasley ci ha detto: «Difficile crederlo, qui in questa civiltà avanzata, progredita. Ma oggi è mio dovere dirlo: la carestia bussa alla porta di milioni e milioni di persone sulla terra. L’incapacità di prevenire la fame ai nostri giorni distruggerà tante vite … Al mondo oggi ci sono 400mila miliardi di ricchezza: anche al culmine di questa pandemia, in soli 90 giorni, la ricchezza nel mondo è aumentata di altri 2.700 miliardi di dollari. Mentre a noi servirebbero solo 5 miliardi per salvare 30 milioni di vite dalla carestia».

I contributi che gli stati danno al WFP non bastano mai. Già coprono solo poco più della metà dei fondi necessari per i progetti in corso. Ma ci sarebbe tanto di più da fare. E Beasley conclude affermando che il WFP non ha i fondi per rispondere a tutti i bisogni. «Non vado a letto la sera pensando a tutti i bambini che abbiamo salvato, ma a quelli che abbiamo lasciato morire».

Con la Rete Italiana per la Pace e il Disarmo ogni anno denunciamo lo scandalo delle esorbitanti spese militari rispetto ai fondi disponibili per spese che salvino le vite umane, che prevengano le guerre e le violenze, fondi per le scuole e gli ospedali. In quest’anno particolare, tutti insieme abbiamo aderito a due appelli gemelli. Da un lato quello a usare almeno parte dei soldi spesi per la guerra e le armi per lottare in maniera efficace contro la pandemia. E dall’altro, l’appello del segretario generale dell’Onu e di papa Francesco a far dichiarare un cessate il fuoco globale. E anche quello ci ha fatto avvicinare: ciascuna delle nostre organizzazioni, grandi e piccole, fa la sua parte. E il World Food Programme ha vinto il premio Nobel per la pace 2020 perché ha mostrato di voler allargare e approfondire l’azione per sconfiggere la guerra. Perché non elimineremo la fame finché ci saranno guerre in corso.

Lisa Clark, co-presidente International Peace Bureau, vicepresidente di Beati i costruttori di pace

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