Il nuovo scenario dell’Agenzia internazionale dell’energia di percorso verso la decarbonizzazione conferma una svolta che l’agenzia dell’Ocse ha già imboccato da qualche tempo: l’abbandono della convinzione che la transizione abbia bisogno di nuove infrastrutture del gas per compiersi senza incidenti o senza costi esorbitanti.

Per esempio, non ha più senso investire in attività di sviluppo di nuovi giacimenti di petrolio, gas e carbone, scrive l’Agenzia. Ciò non stupisce, perché per arrivare alle emissioni nette nulle tra trent’anni è evidente che occorre ora chiudere i rubinetti del flusso degli investimenti fossili almeno all’inizio della filiera.

Ma limitare gli investimenti nella ricerca e sviluppo di idrocarburi non è l’unico segnale che va dato subito per avere risultati radicali nei pochi anni che mancano al 2050 (anno obiettivo della decarbonizzazione netta simulata dall’Aie per i sistemi energetici).

Che senso ha per esempio considerare ancora le caldaie a condensazione come investimenti incentivabili nelle ristrutturazioni edilizie?

Oppure: che senso ha garantire tutti i costi a centrali termoelettriche nuove con soldi pubblici attraverso il capacity market? Questo in un contesto in cui, per esempio, secondo lo scenario Aie in linea con l’obiettivo 1,5° dell’Accordo di Parigi il sistema elettrico dei Paesi Ocse dovrà già essere completamente decarbonizzato al 2035 per permettere all’intera economia di esserlo poi nel 2050.

O ancora: cosa aspettiamo a puntare sulla mobilità elettrica, iniziando con l’escludere le auto a motore termico dai benefici (solo in parte ridotti con una delle ultime leggi di bilancio) delle auto-benefit aziendali? (Di nuovo l’Aie raccomanda la fine della vendita delle auto a motore termico nel 2035 e stima un 60 per cento elettrico dei veicoli venduti al 2030, oltre 55 milioni, mentre per il trasporto pesante l’elettrico è previsto al 50 per cento del venduto nel 2035).

Almeno quando si parla di incentivi, non si capisce perché non si dovrebbe essere selettivi e netti nella direzione della decarbonizzazione.

Gli scettici

Fateci caso: l’armamentario degli scettici della transizione è sempre più datato: «Le rinnovabili sono intermittenti!», «Cosa prendi a fare l’auto elettrica se tanto produciamo energia dalle fossili?».

Salvo scoprire che per un paese con i livelli italiani di mortalità per scarsa qualità dell’aria (ogni anno più o meno le stesse vittime attribuibili ai primi 12 mesi di Covid) togliere i tubi di scappamento dalle aree densamente abitate avrebbe un valore enorme in termini di costi umani e sanitari perfino con un sistema elettrico al 100 per cento fossile. Figuriamoci oggi che per fortuna veleggiamo verso un 40 per cento di generazione elettrica da rinnovabili che, salvo scelte scellerate, è destinato rapidamente ad aumentare. E, come ricorda la roadmap della mobilità sostenibile firmata da tutti i ministeri competenti e agenzie pubbliche di ricerca del 2017, «considerando le emissioni complessive della filiera dei combustibili, il veicolo elettrico risulta quello con minori emissioni climalteranti».

O salvo scoprire che non solo le fonti rinnovabili di energia non sono tutte non programmabili, ma che la domanda di elettricità può essere resa flessibile senza ridurre il benessere degli utilizzatori, in modo da approfittare dei momenti di maggiore disponibilità di energia rinnovabile stoccandola in varie forme. Un potenziale per ora sfruttato molto poco a causa della lentezza nell’aggiornamento delle regole del mercato italiano della flessibilità elettrica (“mercato dei servizi di dispacciamento”).

Davvero pensiamo che con il sovrappiù di potenza elettrica installata, e l’ulteriore ovvio boom delle rinnovabili, avrà ancora un senso accendere centrali fossili di grandi dimensioni, costruite per di più apposta, nelle poche ore di insufficiente generazione anziché usare l’energia accumulata nelle ore (che saranno sempre più comuni) di sovrabbondanza? O anziché puntare ancora di più sull’interconnessione e lo sbottigliamento della rete?

La sentenza della Corte tedesca sul diritto-dovere a una transizione efficace dovrebbe suonare come una sveglia all’aporia anche della macchina normativa e regolatoria italiana. Abbiamo deciso di andare verso la decarbonizzazione in linea con l’Accordo di Parigi? Bene: tanto vale farlo con coerenza e decisione.

Occorre smettere perlomeno di investire in nuovi asset fossili, che diventeranno certamente inutili ben prima di essere stati ammortizzati, prima di occuparci (questione questa invece sì ineludibile) di gestire la transizione di quelli già costruiti, cercando di valorizzare al massimo il futuro delle risorse umane, di capitale, tecnologiche che vi sono oggi impegnate.

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