La cronaca delle ultime settimane ci ha consegnato immagini di folle che non avrebbero potuto essere più diverse per iconografia e contesto: i funerali di Silvio Berlusconi e la manifestazione contro il lavoro precario indetta dal Movimento 5 stelle. La distanza non è solo nelle ragioni che hanno spinto migliaia di italiani a partecipare a un evento o all’altro, ma in un dettaglio passato per lo più inosservato nello sciame di commenti che ne sono seguiti.

A Milano si piangeva la scomparsa del “presidente”, come scandivano i cori di piazza: colui che ha incarnato, forse più di ogni altro nell’Italia contemporanea, l’immagine dell’uomo forte al comando, del decisionismo verticistico in una personalità tanto eccezionale da diventare modello politico. A Roma un’altra voce, quella di Beppe Grillo, ricusava ancora una volta il suo ruolo di guida ed esortava la sua gente a non cercare il leader, ma a diventarlo essa stessa.

Come si fa il leader

Di fronte a queste due posizioni antitetiche è dunque legittimo chiedersi a che cosa ci si riferisca esattamente quando si parla di leadership. Siamo alla ricerca di una figura di riferimento o vogliamo poter partecipare alle decisioni nel modo più coinvolgente possibile? Abbiamo bisogno di un maestro di scacchi che ci indichi dall’alto come disporci sulle caselle, o la nostra esperienza di pedoni sul campo è più valevole per organizzarci e vincere la partita?

Domande diventate particolarmente incalzanti in un mondo così assetato di leader da vederne il miraggio in ogni luogo. La profezia di Barbara Kellerman, che nel 2012 scriveva provocatoriamente che «la leadership corre il rischio di diventare obsoleta», probabilmente non si è avverata. Almeno non in Italia e nelle democrazie occidentali, dove, mentre continuano a sorgere centri di eccellenza per la formazione di manager pubblici e privati, la comprensione di cosa sia realmente la leadership rimane spesso equivoca anche per gli studenti stessi. E gli esempi non mancano: abbiamo segretari di partito che invocano una più larga partecipazione della base e allo stesso tempo rivendicano una maggiore autonomia decisionale; tendiamo a confondere il ruolo di autorità con quello di leadership e noi stessi ci lamentiamo ogni giorno dei nostri dirigenti, ma ci sentiamo come pellegrini persi nel deserto se non ci arriva la loro voce ad indicarci la via.

Cambiare prospettiva

Anziché provare a districarci da questo groviglio di paradossi, sarebbe forse più utile cambiare prospettiva. Invece di cercare di capire “cosa” significhi esercitare leadership e “chi” sia in grado di esercitarla, potremmo cominciare col chiederci “perché” dovremmo farlo. Una leadership che si pone questa domanda è una leadership che coincide con la capacità di elaborare obbiettivi comuni. E di questi tempi non sarebbe cosa da poco.

Dopotutto, come evidenzia Peter Block nel suo Community, viviamo in un'epoca sempre più frammentata e articolata: più che di essere guidati da qualcuno, abbiamo bisogno di sentirci parte di “qualcosa”. Ci manca uno “spazio” che sia in grado di riunire le nostre identità disperse e di invitarci a sviluppare visioni e progetti condivisi. Né giocatori, né pedine dunque: quello di cui abbiamo bisogno davvero da parte di un leader è che ci costruisca la scacchiera.

Identificare l’esercizio della leadership nella convocazione di questo spazio è, di fatto, auspicare la creazione di comunità attive in grado di rimettere in moto un immaginario collettivo. E probabilmente sarebbe più utile investire in un campo da gioco dove le regole permettano di sviluppare una “partita” nuova, fatta di strategie originali e mosse inedite, piuttosto che puntare su vecchie formule incentrate sulla magnificazione di capacità individuali: doti queste divenute ormai insufficienti a fronte di un mondo in cui le relazioni con gli “altri” diventano ogni giorno tanto più scarne quanto radicalmente vitali.

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