Manca un anno alle elezioni per il rinnovo del parlamento europeo e, in un paese come il nostro che vive di emergenze quotidiane, l’evento può apparire lontano e astratto. Tuttavia è possibile che, a giudicare dagli attuali assetti politici nei paesi membri, quel 9 giugno 2024 si riveli un momento chiave per la nostra storia. Qualcosa di cui dovremmo cominciare a occuparci già ora.

E il tempo potrebbe addirittura essere poco, se si considera l’attuale smarrimento dell’Europa sui suoi stessi elementi fondanti. A cominciare proprio dal requisito cardine per sedere nell’Unione: quello di essere una democrazia. Per decenni abbiamo avuto pochi dubbi sul significato della parola. Oggi invece sembra diventato normale chiedersi se, per rientrare nella definizione, sia sufficiente garantire a tutti il diritto di voto, o magari serva quello sforzo in più che la nostra Costituzione sancisce all’articolo 3 quando parla di favorire l’eguaglianza e l’emancipazione dei cittadini. Di recente abbiamo persino scoperto che “democrazia illiberale” non è un ossimoro, ma una realtà vicina a noi più di quanto credessimo.

Possibilità liminale

Abbiamo scritto spesso di come, dopo la Guerra Fredda, l’occidente abbia dato per scontata la democrazia e i suoi valori fondanti, ma uno sguardo originale sul periodo che stiamo vivendo potrebbe scaturire a partire dal lavoro dell’antropologo Victor Turner. Negli studi dedicati ai riti di passaggio nelle società tribali, Turner rileva che nessuna società è statica: a un certo punto un “dramma sociale” finisce per attivare le frizioni tra gruppi diversi, fino a mettere a nudo gli “strati sottocutanei” della società che affiorano provocando una crisi apicale.

Da qui si entra in un nuovo territorio che Turner chiama “liminalità”: un tempo di transizione dove l’ordinamento si disgrega e parole e simboli del passato finiscono per perdere i significati originali. Non si tratta di un momento necessariamente negativo: anzi, l’essenza della “liminalità” è che la scomposizione della struttura originaria genera una nuova ricomposizione dei suoi elementi in una forma diversa. I riti di passaggio sono riti produttivi, creativi e immaginativi: in essi tutto cambia per rinascere in un nuovo ordine.

La nostra idea di democrazia sembrerebbe attraversare questa fase: gli strati sottocutanei della società hanno già mostrato le loro pulsioni e l’incertezza regna su nomi e simboli che parevano eterni. Per quale democrazia scendono in piazza 500mila polacchi? L’Europa di Schengen, della moneta unica e dei diritti civili ha ancora ragione di esistere se molti dei parametri politici, economici e sociali su cui è costruita non sono più riconosciuti? Noi stessi siamo sicuri di essere pronti a rimuovere ogni fattore che limita la libertà e l’eguaglianza dei cittadini? Domande che possono essere viste come il preludio a un futuro incerto, o come un’opportunità, se, in questo periodo di “liminalità”, la nostra immaginazione saprà aggregare in una forma nuova quegli elementi che oggi ci appaiono così confusi.

Il rischio della scissione

Certo si tratta di capire anche quando il rito di passaggio avrà la sua celebrazione: a volte scaturisce in uno scontro cruento, a volte basta vincere i mondiali di calcio per sentirsi proiettati in un futuro migliore. Più semplicemente, nel mondo contemporaneo dovrebbe bastare il risultato del voto. Le europee del 2024 potrebbero essere uno di questi momenti, ma dobbiamo arrivarci preparati, consapevoli che i riti di passaggio possono anche fallire. Succede, ad esempio, quando nella fase di “liminalità” prevale la polarizzazione e alcuni elementi finiscono per attrarre a sé tutti gli altri nel processo di ricomposizione. Il risultato è una scissione: non più un nuovo ordine, ma due antitetici.

Potrebbe capitare anche a noi: se non useremo tutta la nostra immaginazione nella costruzione di una nuova forma di società, il risultato potrebbe lasciarci con due modelli di democrazia e, chissà, forse anche due Europe.

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