«Uribe debe responder». Il quotidiano El País di Madrid oggi dedica il proprio editoriale alla Colombia con un titolo che fa rumore: «Uribe deve rispondere». Si riferisce alla notizia, di primaria importanza, ma totalmente ignorata dalla stampa in lingua italiana, che la Jep (la giunta per le questioni giuridiche del processo di pace tra la guerriglia delle Farc e il governo della Colombia) abbia elevato a 6402 il numero dei cosiddetti "falsi positivi" uccisi durante la presidenza di Álvaro Uribe, in particolare nel periodo dal 2002 al 2008.

I falsi positivi

Per “falsi positivi” si intendono quelle persone inermi, studenti, contadini, sequestrati in strada dall'esercito letteralmente a caso, a volte con prove e false testimonianze, assassinati e poi spacciati come guerriglieri delle Farc per incassare i soldi del “Plan Colombia”. Questo è il piano di aiuti militari da oltre dieci miliardi di dollari che gli Stati Uniti, nei primi 15 anni del nostro secolo, concessero all’esercito colombiano, che pagava poi un tanto a guerrigliero ucciso. Sul merito non ci sono dubbi. L'esistenza dei “falsi positivi” come politica per ingrossare post-mortem le fila della guerriglia è da anni confermata dall'Onu, relatore Philip Alston, e nei documenti della Cia pubblicati dalla Nsa. Sull'argomento sono stati pubblicati migliaia di articoli, libri, e realizzati documentari, tra i quali quello ottimo dell'italiano Simone Bruno. Lo scandalo era già scoppiato nel novembre 2008, quando cadde la testa del generale Mario Montoya, che solo nel luglio di quell’anno era stato celebrato in tutto il mondo come il liberatore della franco-colombiana Ingrid Betancourt, sequestrata per sei anni nella selva dalla guerriglia.

Il ruolo dell’ex presidente

I fatti nuovi oggi sono due. In primo luogo fino a ora il numero di “falsi positivi” calcolato dalla giustizia colombiana, che resta la colonna vertebrale delle istituzioni di quel grande paese, era di 2248. Ora le verifiche effettuate triplicano quel numero, fino a 6402 vittime, in un caso che assume dimensioni mostruose anche per la sanguinosa storia della regione. Il secondo punto, e fatto politico decisivo, è che oggi la Jep chiami direttamente in causa l'ex presidente Álvaro Uribe (2002-2010), accusato di tenere direttamente le fila dell'intera operazione dei “falsi positivi”. Questo fu arrestato per poche settimane nell’agosto 2020, accusato di aver fatto comprare dei testimoni, e poi liberato, forte dell’appoggio dell’attuale presidente Iván Duque.

Siamo quindi di fronte a un crimine contro l'umanità di prima grandezza, una Srebrenica colombiana nella quale tutta la responsabilità è di un esercito alleato, associato alla Nato, e di un dirigente politico che nel suo armadio ha almeno tanti scheletri quanti quelli dei massimi criminali del nostro tempo. Se Álvaro Uribe è un criminale contro l'umanità, come o peggiore di quelli contro i quali si sono mosse guerre, come Slobodan Milosevic, o quelli che invece sono stati ricevuti per il tè delle cinque, come Augusto Pinochet da Margaret Thatcher, si sta forse avvicinando il tempo nel quale ciò possa essere giudicato nelle sedi opportune, che sia un Tribunale colombiano, la migliore soluzione ove possibile, o da un Tribunale penale internazionale.

Una questione internazionale

Durante molti anni, in particolare quelli della presidenza di Bush figlio negli Usa, dopo l'11 settembre 2001, nel contesto della “guerra globale al terrorismo”, invalse una rappresentazione manichea e di comodo del terribile conflitto colombiano, durato dal 1948 ai giorni nostri. Per un conflitto per la terra generato dalle profonde ingiustizie sociali date dall'inserimento di quel grande e ricco paese nel sistema mondo, tutte le responsabilità venivano addebitate alla guerriglia delle Farc. Questa beninteso di responsabilità ne aveva, basti pensare proprio al sequestro di Ingrid Betancourt, l'unico caso che abbia mai interessato i media italiani, ma la realtà era ben più complessa. Vi era innanzitutto il processo storico di espulsione di milioni di piccoli coltivatori dalle loro terre per far posto all’agroindustria. Negli anni Ottanta vi si sommò l’esplosione del narcotraffico, con i paramilitari di destra, per metà bravi manzoniani al soldo dei grandi proprietari terrieri e per metà criminalità organizzata globale, il più famoso dei quali è l’italo-colombiano Salvatore Mancuso. La guerriglia era insomma conseguenza più che motore di tale violenza endemica. Ma nella logica della “guerra al terrorismo” post-11 settembre la narrazione manichea consentì ad Álvaro Uribe di divenire il campione dell’occidente, al quale si poteva permettere tutto, inclusa la destabilizzazione della regione, dell’Ecuador, del Venezuela. Solo il peso geopolitico del Brasile di Lula evitò un conflitto regionale in quella che una volta era stata la Gran Colombia.

Legami col presente

Uribe è tuttora attivo e popolare in Colombia, mentore dell'attuale presidente Iván Duque, e resta il più strenuo oppositore del processo di pace, che lo scorso luglio costò la vita anche del cittadino italiano impegnato nella missione Onu, Mario Paciolla, in circostanze che ancora devono essere chiarite. Per un processo, difficile ma ammirevole, ma soprattutto ineludibile e ancora in buona parte da fare, il suo successore Juan Manuel Santos fu insignito del premio Nobel per la Pace nel 2016. La barbarie che emerge con il lavoro difficilissimo della Jep, con quei 6402 disgraziati, ammazzati e poi travestiti da guerriglieri, non può concludersi senza verità e giustizia. Il manicheismo dell’era Bush è tramontato e come afferma El País di Madrid, per i “falsi positivi” ora Uribe deve rispondere.

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