La nomina di Enrico Letta a segretario del Pd ha riacceso il dibattito sulla partecipazione giovanile al voto. La sua proposta di estendere il diritto di voto ai 16enni, come già avviene in Austria e a Malta, non è l’unico tentativo di allargare la platea dei votanti: lo scorso 15 ottobre la Camera avrebbe dovuto approvare una riforma costituzionale voluta dal Movimento 5 Stelle per concedere anche ai 18enni di eleggere i senatori, facendo venire meno l’insolita asimmetria che garantisce solo ai maggiori di 25 anni di votare per la Camera alta.

C’è però un’altra riforma che contribuirebbe a estendere la partecipazione politica giovanile: far votare i cittadini in mobilità - per lo più studenti e lavoratori fuori sede - nel luogo in cui sono domiciliati. Se ne parla da tempo, in Parlamento non mancano le proposte di legge bipartisan ma nessuna fino a ora è riuscita ad affermarsi.

I numeri sono poderosi: si stima che i cittadini in mobilità siano 1.5 / 2 milioni, che lasciano il comune di residenza per ragioni di studio, per cercare il primo impiego, per specializzarsi o per motivi di lavoro. Secondo uno studio condotto da Talents Venture nel 2019, limitandosi agli studenti universitari che frequentano un ateneo fuori regione, si contano almeno 440.000 persone che vivono stabilmente lontano dalla propria residenza. Un esercito di cittadini (per lo più nella fascia tra i 18 e 35 anni) a cui è resa sistematicamente difficile la partecipazione al voto: il sistema elettorale italiano infatti prevede che solo alcune categorie (militari e forze dell’ordine, naviganti, detenuti e degenti) possano votare al di là del luogo di residenza.

Per tutti gli altri è previsto un rimborso parziale dei costi di viaggio per raggiungere il seggio elettorale che configura, di fatto, un sistema discriminatorio e inadeguato rispetto al dettato costituzionale che parla di gratuità nell’esercizio del voto e di dovere di rimozione degli ostacoli alla partecipazione politica di tutti i cittadini da parte della Repubblica. In risposta a un’interrogazione parlamentare del giugno 2019 il Ministero dell’Economia ha stimato costi per circa 8 milioni di euro a titolo di rimborsi viaggio erogati per l’anno cifra significativa se confrontata con i circa 7 milioni di euro spesi per consentire il voto dall’estero in tutto il territorio dell’Ue. L’Italia stessa consente già il voto a distanza per i residenti all’estero, e garantisce lo stesso diritto agli studenti Erasmus che si trovino in altri Paesi europei.

Perché non adeguare una norma vecchia, che punisce sistematicamente la fascia più dinamica della popolazione e danneggia in particolare le regioni meridionali (da cui provengono la maggior parte degli elettori in mobilità) che non a caso ha percentuali di voto molto inferiori rispetto alle altre e che beneficerebbe del voto di giovani istruiti, più allergici alle logiche clientelari che ancora in parte inquinano i processi elettorali al Sud?

Basterebbe copiare dagli altri Paesi europei, che da tempo hanno messo in campo una molteplicità di sistemi per garantire il voto a tutti: in Germania è consentito sia il voto per corrispondenza sia quello in un altro seggio; I Paesi Bassi, oltre al voto in un seggio diverso, prevedono il voto per delega. Anche il Belgio e la Francia adottano il meccanismo della delega, ammessa esplicitamente per motivi di studio. Svizzera, Spagna, Irlanda, Regno Unito consentono anche il voto per corrispondenza ai fuori sede.

In mancanza di azioni concrete da parte della politica, ci si sta organizzando per via legale, attraverso ricorsi da parte di fuori sede che - dopo aver sostenuto costi impegnativi per recarsi alle urne - chiedono di veder riconosciuto il loro diritto alla gratuità al voto. Prima che siano le Corti a pronunciarsi, le forze politiche potrebbero dimostrare di tenere davvero alla partecipazione giovanile scalfendo finalmente le resistenze burocratiche a modernizzare il sistema di voto.

Stefano La Barbera è presidente del comitato Iovotofuorisede

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