Non conosco Veronica Raimo di persona, mentre invece il fratello Christian sì. Direte: chi se ne importa di chi conosce costui nella vita reale? E vi ringrazio di aver espresso così succintamente la ragione per cui Niente di vero, Einaudi, il nuovo libro della suddetta Raimo appena entrato nella dozzina dello Strega, non ci interessa perché parla di persone reali, a cui sono successe davvero certe cose, ma perché è un sofisticato romanzo.

Avverto prima perché la tentazione di credere di avere a che fare con un memoir è forte. Veronica, Verika, Oca, insomma la voce narrante, parla in prima persona e lo fa con spirito, con sincerità, con strafottenza, addirittura con cattiveria, come vorremmo parlare tutti delle nostre vite se fossimo abbastanza brillanti da riuscirci. «E penso che [la vecchia Volvo di mio padre] continuerà a invecchiare, e il grigio antico diventerà ancora più antico, una patina di deterioramento che non si nutre di nostalgia, e che poi se ne andrà in malora e un giorno finirà dalla sfasciacarrozze e di sicuro non ci sarà nessuno che andrà a farle visita o a portarle dei fiori, ma magari ci sarà qualcuno che avrà bisogno di un motore o di uno sportello. Vorrei tanto che tutto il passato funzionasse così».

Indomita franchezza

Questa voce così convincente, forse il vero trionfo del libro, è anche molto, molto divertente, come certifica Zerocalcare in fascetta e come testimoniano passaggi come: « – Mio figlio è lì? – No, Francesca, mi dispiace. – Ma che starà facendo, a quest’ora? – Non lo so Francesca. Forse sta scopando, proprio come me fino a due secondi fa. – Non vi capisco, ragazzi. Che vi costa fare una telefonata a vostra madre prima di mettervi a scopare?».

Ma questa voce non fa solo ridere: ci racconta le cose dolorose, non solo quelle allegre, e tra una risata e l’altra ci sono morti, abbandoni, traumi assortiti. Questi dolori sono raccontati con tale indomita franchezza, tale insopprimibile tendenza a cogliere l’assurdo e il ridicolo di ogni situazione («A noi ci interessa solo scopare», il momento che io personalmente ho trovato più lancinante, quando leggerete capirete), che dopo un po’ si ride sapendo che si potrebbe anche piangere e viceversa.

Romanzo femminista

Alla fine del libro, in una pagina in cui la voce narrante si confonde molto con l’autrice, viene citato uno scrittore che definisce “algida” la scrittura di Raimo: «Il suo punto di vista era che non fossi affatto algida nella vita, mentre nella scrittura facevo di tutto per esserlo. Usavo i libri per schermarmi, sottraevo le parti più fragili, tenere e buffe di me stessa». Ma io penso che questo romanzo così femminista – che lo è non solo per i discorsi sulla sessualità femminile, né solo per le battutacce sui privilegi maschili – sia ancora più femminista nel non seguire superficialmente il suggerimento (non necessariamente superficiale) dello scrittore (peraltro maschio).

È vero che in questo libro non mancano più le parti fragili (che sono strazianti), quelle tenere (irresistibili) e quelle buffe (addirittura comiche). Ma non perché finalmente l’autrice si è messa a scrivere come vive, quindi non algidamente, né perché ha dato in pasto al pubblico la sua esperienza privata.
La scrittura controllata e consapevole di Raimo, in cui il bello e il brutto di una vita sono passati in rassegna con aerodinamica velocità, non punta alla confessione ma alla costruzione: di una voce, di un personaggio, di un mondo – cioè alla costruzione di un romanzo. Un romanzo peraltro sofisticato precisamente perché gioca con la possibilità che lo si interpreti come semplice memoir femminile. E invece si può utilizzare la propria vita come materiale letterario, nonché affrontare tutte le classiche tematiche “femminili” (il rapporto con la madre, l’amore, la coppia, il desiderio di maternità) – senza cedere di un millimetro. A me questo pare femminismo letterario realizzato.
Dalla copertina ci avevano avvertito: in questo libro non c’è niente di vero (né di Vero). Nelle ultime righe del libro troviamo: «Per me scrivere è essenzialmente questo. Scrivo cose ambigue e frustranti». Evviva. Mi sa che Veronica quella cosa dell’algida potrebbe usarla per farci una bella battuta sui gelati.

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