Da qualche tempo capita che avventurosi sociologi dei consumi e analisti di mercato occidentali avanzino una provocazione, che suona più o meno così: il mondo e le abitudini stanno cambiando rapidamente e il vostro amato caffè ha un rivale sempre più forte che in futuro potrebbe addirittura prenderne il posto.

Un rivale che viene dal Giappone e che anche solo a nominarlo sembra evocare nei suoi cultori più affezionati un senso di benessere: matcha.

Una moda irresistibile

Chi non l’ha mai provato avrà sicuramente sentito cantarne le lodi da qualche conoscente entusiasta o se lo sarà trovato per le mani facendo la spesa al supermercato. Il matcha è l’“oro verde” che crea code incomprensibili agli ingressi di Starbucks e non manca quasi mai nelle diete dei fitness influencer, che spopola negli Stati Uniti e si fa sempre più spazio pure in Europa. Si tratta di foglie di tè verde ridotte in polvere finissima: inizialmente originario della Cina, oggi è in larga parte prodotto in Giappone, dove è la varietà usata per la tradizionale cerimonia del tè.

Si può sorseggiare come un qualunque tè – ma è di qualità e prezzo decisamente superiori alla media – e può essere utilizzato come ingrediente per la preparazione di un’infinità di cibi solidi o liquidi, che incontrano il favore di dietologi, chef stellati e ristoratori in genere. Il matcha latte, per dire, è considerato in assoluto una delle bevande più in voga degli ultimi anni.

E se è vero che le mode passano, è anche vero che alcune riescono ad aggrapparsi a una nicchia e da lì a diffondersi: sarà questo il caso della tanto acclamata polverina verde? Difficile prevederlo. Di certo il governo giapponese ci spera, e ci investe, da almeno un decennio.

Spinta sull’agroalimentare

La crescente popolarità del matcha, del resto, trova conferma anche nelle proiezioni economiche più recenti: per il 2024 il suo valore di mercato a livello globale dovrebbe raggiungere i 4,25 miliardi di dollari e superare i 6,6 miliardi entro il 2029, crescendo nei prossimi cinque anni a un tasso annuo composto (CAGR) del 9,46 per cento.

Per inquadrare un po’ meglio questi numeri: nello stesso periodo di tempo il mercato mondiale del caffè dovrebbe crescere decisamente meno, a un tasso di poco inferiore al 5 per cento, ma per attestarsi su un giro d’affari attorno ai 100 miliardi di dollari. Ecco allora che, dati alla mano, quella provocazione sul matcha che detronizza il caffè resta appunto una provocazione. La distanza in termini di diffusione e valore economico, infatti, è ancora abissale e, almeno per il momento, la faida può essere archiviata.

Ma da diversi anni il Giappone è fortemente impegnato in una campagna politica ed economica che mira a promuovere il proprio patrimonio culinario, in primis al suo interno e poi all’estero, nel tentativo di raggiungere gradualmente una maggiore indipendenza nel settore agroalimentare. E anche l’industria del tè inizia a raccoglierne i frutti, sulla spinta delle innumerevoli iniziative patrocinate dal governo di Tokyo, che nel matcha ha saputo individuare uno dei più autentici elementi distintivi della propria tradizione.

Il soft power del Washoku

Quando nel 2013 l’Unesco ha iscritto nella lista dei patrimoni culturali dell’umanità il Washoku, la cucina tradizionale giapponese, il paese asiatico era sotto la guida del Partito Liberal Democratico, così come lo è oggi. «Un aspetto che ha sicuramente favorito una certa continuità, in questi dieci anni, nel tentativo di riavvicinare il popolo al consumo di prodotti nazionali» spiega Felice Farina, ricercatore dell’università Orientale di Napoli.

«Attraverso la valorizzazione del Washoku, il Giappone ha cercato soprattutto di rispondere alla crescente occidentalizzazione della dieta dei suoi cittadini, che nel tempo ha inciso negativamente sull’indipendenza agroalimentare di un paese in cui oggi si arriva a importare quasi il 70 per cento di ciò che si mangia e si beve». Eppure, nonostante la continuità politica e gli investimenti, il problema interno appare ancora lontano dall’essere risolto, con il consumo di prodotti locali, come il riso o la soia, che non accenna affatto a risalire.

All’estero, al contrario, gli sforzi profusi dal governo nipponico sembrano aver trovato terreno più fertile e l’aumento esponenziale di ristoranti giapponesi nel mondo ne è una conferma: se nel 2013 se ne contavano 55mila, nel 2023 hanno toccato quota 187mila, con un incremento del 21 per cento rispetto al 2021.

L’accordo con l’Ue

E mentre il riconoscimento del Washoku all’Unesco ha gettato basi solide per il progressivo sviluppo di un soft power culinario giapponese, «un secondo momento di svolta a livello commerciale è arrivato nel 2019 con l’entrata in vigore dell’Accordo di partenariato economico siglato con l’Unione Europea» fa notare Farina. Accordo che, tra le altre novità introdotte, cancella le imposte sul 99% delle merci giapponesi e in particolare rende molto più semplice ed economico per i produttori del Sol levante vendere in Europa alcuni tipi di tè verde, matcha incluso, in confezioni che non superino i 3 kg di peso.

Così, passata la batosta e gli strascichi del Covid, che per vari mesi ha di fatto immobilizzato tutti quei processi di coltivazione ad alta intensità di manodopera – come quelli richiesti per il matcha – i maggiori produttori giapponesi, da matcha Maiden a Ippodo Tea, hanno iniziato a sperimentare nuove tecniche di produzione e metodi di confezionamento per sfruttare al meglio i vantaggi derivanti dall’accordo di libero scambio. Poi, la crescente domanda globale di prodotti salutari e a minor dosaggio di caffeina (anche questo, secondo una parte della letteratura, un probabile effetto psicologico della pandemia) ha fatto il resto.

L’Europa è così entrata a tutti gli effetti “nel giro”, mentre Stati Uniti, Cina, Sri Lanka e India continuano a importare la gran parte di matcha in circolazione nel mondo. E il Giappone, leader indiscusso nella produzione, è oggi il primo esportatore di questo antico e raffinato ingrediente che, in ogni caso, in patria rappresenta appena il 4 per cento del tè verde prodotto complessivamente. Perché, conclude Farina: «Rimanendo strettamente legato a contesti cerimoniali o comunque formali, il matcha è qualcosa che sarebbe esagerato definire elitario ma che sicuramente, nella maggior parte dei casi, in Giappone non è di uso quotidiano. Per intendersi: qualcosa che non possiamo paragonare al nostro caffè espresso».

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