Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editore


Quella di Giovanni rimane comunque, per me, la storia più tragica. È stato il magistrato più bravo d’Italia ma anche il più ferito. Una sorta di Aureliano Buendía con la toga, il colonnello dei Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez che condusse trentadue battaglie e amaramente tutte le perse. Gli venne preferito Antonino Meli quando si candidò a guidare il pool dopo Antonino Caponnetto. Un mese dopo, andò buca anche la nomina alla guida dell’Alto commissariato per la lotta alla mafia perché gli preferirono Domenico Sica; si candidò alle elezioni dei membri togati del Consiglio Superiore della Magistratura del 1990 e non venne eletto. Per la Procura Nazionale antimafia gli venne preferito Agostino Cordova.

Occuparsi seriamente e con tutto se stesso di mafia in Italia, nonostante molti lo sostengano, non è un buon viatico per fare una prestigiosa carriera in magistratura. Sarà un caso ma a nessuno di noi, a nessun altro del pool, è capitato. Non siamo diventati delle star, né volevamo esserlo del resto, e non ci avete visto spesso in tv. Forse anche questo faceva parte del marchio di fabbrica del pool antimafia.

Anche Paolo Borsellino aveva una storia particolare alle spalle. Prima di entrare a fare parte del pool, per un certo periodo di tempo, gli vennero tolte le indagini di mafia.

Accadde infatti che Paolo indagasse sull’omicidio del capitano dei carabinieri Emanuele Basile (avvenuto la notte del 4 maggio 1980 a Monreale, comune nei pressi di Palermo) e riuscisse a portare a processo, con prove decisamente inoppugnabili, killer pericolosi come Giuseppe Madonia, Vincenzo Puccio e Armando Bonanno. Quella del processo Basile è una vicenda che dice molto della Sicilia di quegli anni e di Paolo Borsellino.

Madonia, Puccio e Bonanno vennero arrestati pochi minuti dopo l’attentato.

Era la prima volta che accadeva in un delitto di mafia. Con la sentenza di primo grado furono però assolti dalla Corte d’Assise presieduta da Salvatore Curti Giardina. Puccio, Bonanno e Madonia si difesero sostenendo che quella sera erano reduci da un incontro con donne sposate, delle quali non fornirono i nomi “per tutelarne l’onore”. Furibondo per l’assoluzione, Paolo riuscì comunque a mandare i tre al soggiorno obbligato in Sardegna, dal quale però fuggirono pochi giorni dopo.

Successivamente, Madonia e Puccio furono nuovamente tratti in arresto mentre Bonanno, secondo gli inquirenti, sarebbe rimasto vittima della “lupara bianca”, cioè ucciso e il suo corpo fatto sparire. Il 24 ottobre del 1984 furono riprocessati e condannati all’ergastolo, ma la sentenza venne annullata con rinvio dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale.

La sentenza emessa dalla Corte di Assise di Appello, presieduta da Antonino Saetta, che aveva confermato le condanne all’ergastolo degli imputati, venne annullata per difetto di motivazione.

In seguito alla fuga dal soggiorno obbligato di Puccio, Bonanno e Madonia, la famiglia di Borsellino si preoccupò molto, perché temeva la vendetta da parte di quei pericolosi killer che, sicuramente, erano rientrati a Palermo.

Intervenne il suocero di Paolo, Angelo Piraino Leto, anch’egli magistrato, cercando di convincere il genero a non occuparsi ancora di indagini di mafia. Ovviamente, senza ottenere alcun risultato. E allora provò a ottenere qualcosa dal consigliere Rocco Chinnici, facendogli presente la pericolosità dei processi affidati al genero. Paolo quando lo seppe si arrabbiò moltissimo, ma l’esito fu comunque che Chinnici in quella fase lo escluse dalle indagini di mafia.

Ecco perché, quando si racconta la nascita del pool, si ricorda che fu Falcone a convincere Caponnetto a “recuperare” Paolo – allora perduto fra fascicoli relativi a reati “bagatellari” –, il quale accettò con entusiasmo, naturalmente.

Con Paolo era facile entrare in confidenza tanto che intrattenemmo una affettuosa amicizia. Se Falcone era un moderato, lui era uno che “non la mandava a dire”, tanto da non esitare, nella famosa intervista a “Repubblica” e a “l’Unità” rilasciata nel luglio del 1988 a Attilio Bolzoni e Saverio Lodato, a denunciare lo smantellamento del pool e la “normalizzazione” della Squadra mobile della Questura di Palermo.

Io e Paolo condividevamo un rito. Verso fine primavera ci portavamo al bar del Tribunale per consumare il nostro primo caffè freddo. Con il suo fare comunicativo e accattivante, e con l’indimenticabile sorrisetto sotto i baffi, Paolo pronunciava sempre la fatidica frase: “Leonardo, abbiamo vissuto un altro anno”, quasi a esorcizzare il pericolo che, ormai, incombeva su di noi. Anche dopo il suo trasferimento alla Procura di Marsala non mancavamo di celebrare quel rito all’inizio della bella stagione ma, in quel terribile 1992, non pronunciò la nostra frase d’intesa con l’espressione ammiccante degli anni precedenti. E non solo per il ricordo bruciante e doloroso del collega e amico Giovanni Falcone che, alcuni giorni prima, la barbarie mafiosa ci aveva portato via per sempre. Fu infatti chiaro – e me lo confermò in occasione dei nostri successivi incontri – che era impegnato, con tutto se stesso, in una disperata corsa contro il tempo per scoprire i nomi degli esecutori e dei mandanti della strage di Capaci, con la consapevolezza che bisognava fare in fretta, sempre più in fretta perché era certo che il tempo stesse per scadere anche per lui.

© Riproduzione riservata