L’attacco di Hamas del 7 ottobre e la furiosa risposta militare israeliana hanno paralizzato l’anno scorso le trattative per la normalizzazione dei rapporti tra il paese ebraico e l'Arabia Saudita.

Questa ipotesi è tornata prepotentemente alla ribalta in queste ore come parte di un piano messo a punto dai paesi arabi per ottenere il cessate il fuoco a Gaza e la liberazione dei più di 100 ostaggi da parte di Hamas, di cui ha dato conto il Financial Times nei giorni scorsi.

L’iniziativa prevederebbe l’accordo su una serie di passi «irreversibili» per creare uno stato palestinese, come pure il riconoscimento dello stesso da parte dei paesi occidentali o quantomeno lo status di membro pieno nelle Nazioni Unite. La normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita sarebbe la ciliegina sulla torta.

Prima che la guerra scoppiasse, gli sforzi diplomatici di Israele e Stati Uniti nella regione erano tutti tesi ad ottenere questo risultato, considerandolo uno step necessario per la stabilizzazione del Medio Oriente. La normalizzazione delle relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita, leader del mondo sunnita e custode dei due luoghi sacri più importanti per l’islam, è considerato da Israele l’elemento fondamentale del processo di normalizzazione delle relazioni con tutto il mondo arabo, partita con gli accordi di Abramo del 2020, che hanno sancito la creazione di relazioni diplomatiche tra Israele da una parte e Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Marocco e Sudan dall’altra.

Nel contempo, il Principe saudita Mohammed bin Salman è impegnato da anni in un programma ambizioso di apertura internazionale del suo paese, tale da renderlo un hub finanziario, commerciale e turistico nella regione, la cui stabilità diventa quindi fondamentale per conseguire tali obiettivi.

Conflitto su più fronti

L’iniziativa araba arriva in un momento cruciale del conflitto tra Israele ed Hamas. La comunità internazionale critica con sempre più forza la condotta israeliana della guerra, che sta provocando ingenti perdite di vite civili palestinesi.

La rabbia e il dolore delle famiglie degli ostaggi, che non sanno praticamente più nulla dei propri cari dopo più di 100 giorni di guerra, si traduce in manifestazioni quotidiane nel paese che chiedono al governo di cambiare strategia per ottenerne la liberazione.

Il malcontento delle truppe e all’interno del gabinetto di guerra stesso su come sta evolvendo il conflitto emerge insistentemente. Non sapendo qual è la strategia per la governance dell’enclave post conflitto, l’esercito fatica a prendere decisioni tattiche.

A ciò va aggiunto che malgrado i raid degli Stati Uniti e dei suoi alleati, la minaccia degli Houthi nel Mar Rosso è ben lontana dall’essere debellata. In Cisgiordania, la situazione è rovente con raid aerei e di droni israeliani sui Territori Occupati e violenti attacchi di coloni ebrei contro i palestinesi all’ordine del giorno. A fronte di un quadro così complesso, l’accordo di normalizzazione con l’Arabia Saudita è visto come il tassello negoziale che potrebbe far ridurre a più miti consigli premier israeliano Benjamin Netanyahu. La scorsa settimana, infatti, il segretario di Stato americano Antony Blinken, che col presidente Joe Biden sostiene con forza l’ipotesi dei due stati come elemento irrinunciabile della soluzione del conflitto tra Israele e palestinesi, ha detto che si è arrivati a un «punto di svolta» in Medio Oriente, che richiede decisioni difficili e che ora sta ad Israele se «approfittare dell’opportunità che crediamo ci sia». Bibi però sinora non si è mosso dalle sue posizioni, malgrado l’offerta allettante di poter riprendere il dialogo di normalizzazione con la potenza regionale saudita. Non ritiene i due stati un’ipotesi realizzabile, anzi la vede come una minaccia alla sicurezza di Israele. Ribadisce l’obiettivo di «totale vittoria» e che gli ostaggi saranno tutti liberati. Anche Hamas ha fatto sapere di non accettare l’ipotesi dei due stati, quindi per ora lo stallo rimane.

Il ministro a Davos

L’accordo di normalizzazione precedente al 7 ottobre era più freddo rispetto alla questione palestinese dell’iniziativa dei paesi arabi di cui si sta parlando in questi ultimi giorni. In quei mesi le condizioni riguardanti i palestinesi prevedevano il congelamento dell’espansione degli insediamenti di coloni ebrei in Cisgiordania, un appoggio più forte all'Autorità palestinese che ora amministra parte dei territori e l’individuazione di un percorso che portasse alla soluzione dei due stati. Ora l’Arabia Saudita, che ha ripetutamente condannato l’offensiva israeliana a Gaza, ha alzato la posta del nuovo accordo, che prevede che venga delineato un processo «irreversibile» per la creazione di uno stato palestinese.

«Né gli israeliani né i palestinesi sono pronti per un accordo di questo tipo», dice Abdolrasool Divsallar, professore specializzato in temi di sicurezza internazionale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

A Davos, il principe Faisal bin Farhan, ministro degli Esteri saudita, ha detto la scorsa settimana che il suo paese riconoscerebbe «sicuramente» Israele come parte di un accordo politico più ampio, che include la creazione di una Stato palestinese.

«Siamo d’accordo che la pace regionale include la pace per Israele, ma questo può succedere solo attraverso la pace per i palestinesi che passa attraverso (la creazione di) uno Stato palestinese» ha dichiarato bin Farhan.

Alcuni analisti fanno notare come l’iniziativa araba possa essere un modo per isolare Israele, facendolo passare come il responsabile del fallimento di un ampio piano di stabilizzazione regionale e per pressare i suoi alleati affinché lo spingano ad accettarlo.

Il piano potrà servire anche da punto di partenza di un processo diplomatico futuro, gestito da altri interlocutori israeliani e palestinesi. «È un atto politico. Serve ad avere una proposta sul tavolo.

Avere un piano pronto a cui tutti aggiungeranno un pezzo quando i tempi saranno maturi» dice Divsallar.

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