Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


In relazione ai fatti di interesse assumono specifico rilievo le dichiarazioni di Cucuzza Salvatore ovvero di un collaboratore di giustizia la cui attendibilità è stata criticata e posta in discussione dalle difese, in specie da quella dell’appellante Dell'Utri.

Richiamando anche la ratio del giudicato (secondo una lettura che si ponga a favore dell’imputato) è stato sottolineato il fatto che gli incontri tra Mangano e Dell'Utri dopo l’insediamento del governo Berlusconi, di cui ha riferito appunto il Cucuzza, sono stati ritenuti insussistenti con la sentenza irrevocabile intervenuta per il reato aggravato di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p., resa nel processo svolto a carico di Dell'Utri, di modo che, con la sentenza di primo grado di questo processo, sarebbe stata trascurata la dipendenza logica assoluta tra l’esistenza di quegli incontri e la responsabilità del Dell'Utri quale propalatore della minaccia ai sensi dell’ art. 338 c.p..

In buona sostanza la difesa ha eccepito un’incompatibilità logico/giuridica tra i fatti posti a fondamento della decisione impugnata e quelli accertarti con sentenza divenuta irrevocabile. In ogni modo è stata contestata la violazione dell’mt. 238-bis c.p.p. E l’assenza di motivazione in ordine alla portata probatoria della citata sentenza.

Nell’atto di appello Dell'Utri si è censurato il fatto che sarebbe intervenuta una “sorta di inammissibile revisione contra reo, camuffata sotto le spoglie della “libera valutazione” della sentenza irrevocabile ai sensi dell ‘art. 238 bis c.p.p. “e, sempre al riguardo, è stato posto in evidenza il fatto che, una volta acquisita una sentenza irrevocabile, il giudice non possa decidere di non tenerne conto o di ignorarla, così rischiando di ricostruire i fatti in maniera del tutto inconciliabile con quelli già irrevocabilmente accertati.

Rievocando il contenuto precettivo dell’art. 238 bis c.p.p., per come elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, si è fatto riferimento all’onere di motivazione nonché all’obbligo del giudice di tenere conto della sentenza irrevocabile nella ricostruzione dei fatti per evitare il contrasto tra giudicati e prevenire la revisione”.

In altre parole il giudice di prime cure, per affermare la responsabilità del Dell'Utri per concorso nel reato di minaccia a Corpo politico dello stato, avrebbe dovuto individuare fatti ulteriori, diversi e naturalisticamente compatibili rispetto a quelli già ritenuti insussistenti con il giudicato; solo così -si sostiene sempre nel gravame - i fatti a fondamento della sentenza di condanna in primo grado non sarebbero entrati in contraddizione con quelli accertati come insussistenti nella pronuncia irrevocabile.

La sentenza di primo grado (sui fatti dopo il 1992)

Quanto ai “riscontri”, che secondo la Corte di Assise varrebbero ai sensi dell’art. 238 bis c.p.p., sono riferiti alla verifica della “Attendibilità delle dichiarazioni di Salvatore Cucuzza” in riferimento sempre a “Gli incontri di Vittorio Mangano con Marcello Dell'Utri successivi all’insediamento del governo Berlusconi”. Ebbene nel menzionato atto di appello è stato evidenziato con forza che tali “riscontri” erano stati tutti già esplorati nella sentenza di assoluzione per il concorso nel reato associativo per i fatti collocabili dopo il 1992:

1) il “decreto Biondi” e la “piccola modifica” alla disciplina della custodia cautelare in carcere e la testimonianza di Roberto Maroni;

2) il lancio Ansa del 20 dicembre 1994;

3) la convergenza delle dichiarazioni di Cucuzza con le dichiarazioni di Giusto Di Natale.

Si sostiene, pertanto, che la decisione di primo grado abbia violato la ratio e il contenuto precettivo dell’art. 238 bis c.p.p., ignorando la sentenza irrevocabile acquisita in atti, di modo che, per conseguenza, tutta la parte della motivazione relativa ai presunti incontri tra Mangano e Dell'Utri finirebbe per essere viziata da una violazione di una norma processuale e da una assoluta carenza argomentativa in ordine alla portata probatoria della sentenza irrevocabile della Corte di Appello di Palermo del giugno 2010, n. 2265.

Rispetto a tali censure, così come alle altre di analogo contenuto articolate dalla difesa, è necessario replicare escludendo la sussistenza del bis in idem; per il semplice fatto che diversi sono i reati contestati a Dell'Utri in riferimento a condotte ontologicamente differenti: quella riferita al reato di concorso nell’associazione mafiosa, provata fino alle condotte contestate come commesse antecedentemente al 1992 e non provata per quelle successive al 1992; quella di questo processo relativa all’inoltro della minaccia stragista “... favorendone la ricezione da Berlusconi Silvio dopo il suo insediamento come Capo del governo”.

La tematica è stata già affrontata in questa motivazione a proposito delle questioni preliminari ma, al fine di ulteriormente chiarire il punto, è bene rinviare anche al condivisibile percorso tracciato con la decisione di primo grado: occorre, innanzitutto, ribadire che non è l’identità delle fonti probatorie del processo già definito con quelle del processo qui in esame (identità che, peraltro. Come si è visto, non v’è essendosene aggiunte altre decisive in questo processo,) che può dare luogo all’identità del fatto richiesta dall‘ar. 649 c.p.p. per l’insorgere del divieto di un secondo giudizio. Si è già ricordato, invero, che “non hanno rilevanza ed efficacia, ai fini della preclusione ex art. 649 c.p., l’identità delle fonti probatorie e l’unicità della condotta caratterizzante la fattispecie del concorso formale eterogeneo di reati, con la conseguenza che le medesime fonti probatorie possono essere utilizzate per dimostrare l’esistenza di un ulteriore illecito che risulti essere stato commesso con la medesima azione con la quale è stato integrato quello già giudicato” (v. Cass. 21 marzo 2013 n. 18376).

I fatti già contestati (e giudicati) all’ex senatore di Forza Italia

[…] Entrando, allora, nel merito della questione deve rilevarsi che Marcello Dell‘Utri è stato già giudicato per il reato previsto dagli artt. 110 e 416 bis commi 1, 4 e 6 c.p. “per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata “Cosa nostra” nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l’influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del inondo finanziario ed imprenditoriale, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima”. E così ad esempio:

1. partecipando personalmente ad incontri con esponenti anche di vertice di Cosa nostra, nel corso dei quali venivano discusse condotte funzionali agli interessi della organizzazione;

2. intrattenendo, inoltre, rapporti continuativi con l‘associazione per delinquere tramite numerosi esponenti di rilievo di detto sodalizio criminale, tra i quali, Pullarà Ignazio, Pullarà Giovanbattista, Di Napoli Giuseppe, Di Napoli Pietro, Ganci Raffaele, Riina Salvatore, Graviano Giuseppe;

3. provvedendo a ricoverare latitanti appartenenti alla detta organizzazione;

4. ponendo a disposizione dei suddetti esponenti di Cosa nostra le conoscenze acquisite presso il sistema economico italiano e siciliano.

Così rafforzando la potenzialità criminale dell‘organizzazione in quanto, tra l’altro, determinava nei capi di Cosa nostra ed in altri suoi aderenti la consapevolezza della responsabilità di esso Dell‘Utri a porre in essere “in varie forme e modi, anche mediati condotte volte ad influenzare — a vantaggio della associazione per delinquere — individui operanti nel inondo istituzionale, imprenditoriale e finanziario. Con le aggravanti di cui ai commi 4° e 6° dell’art 416 bis c.p, trattandosi di associazione armata e finalizzata ad assumere il controllo di attività economiche finanziarie, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Reato commesso in Palermo (luogo di costituzione e centro operativo dell’associazione per delinquere denominata Cosa nostra), Milano ed altre località, dal 28.9.1982 ad oggi” (v. sentenze in atti).

Ma per comprendere meglio, al di là della necessariamente più generica formulazione del capo di imputazione, quali furono gli episodi specifici che furono oggetto del precedente processo e diedero luogo alla iniziale condanna pronunziata dal Tribunale (poi in parte riformata) può farsi riferimento alla elencazione contenuta nella prima sentenza della Corte di Appello che così li descrive:

- la “posizione assunta da Marcello Dell‘Utri nei confronti di esponenti di cosa nostra”, ai contatti diretti e personali con alcuni di essi (Bontate, Teresi, oltre a Mangano e Cinà), al ruolo ricoperto dallo stesso nell‘attività di costante mediazione, con il coordinamento di Gaetano Cinà, tra quel sodalizio criminoso e gli ambienti imprenditoriali e finanziari milanesi con particolare riguardo al gruppo Fininvest;

- la “funzione di “garanzia” svolta nei confronti di Silvio Berlusconi, il quale temeva che i suoi familiari fossero oggetto di sequestri di persona, ad operandosi per l‘assunzione di Vittorio Mangano presso la villa di Arcore dello stesso Berlusconi, quale “responsabile” (“fattore” o “soprastante’) e non come mero “stalliere”, pur conoscendo lo spessore delinquenziale dello stesso Mangano sin dai tempi di Palermo (ed, anzi, proprio per tale sua “qualità”), ottenendo l’avallo compiaciuto di Stefano Bontate e Girolamo Teresi, all‘epoca dite degli “uomini d‘onore” più importanti di “cosa nostra” a Palermo”;

- gli ulteriori rapporti dell‘imputato con ‘‘cosa nostra”, favoriti, in alcuni casi, dalla fattiva opera di intermediazione di Gaetano Cinà, protrattisi per circa un trentennio nel corso del quale Marcello Dell‘Utri aveva continuato l‘amichevole relazione sia con il Cinà che con il Mangano, nel frattempo assurto alla guida dell‘importante mandamento palermitano di Porta Nuova, palesando allo stesso una disponibilità non meramente fittizia, incontrandolo ripetutamente nel corso del tempo, consentendo, anche grazie a Cinà, che “cosa nostra “percepisse lauti guadagni a titolo estorsivo dall‘azienda milanese facente capo a Silvio Berhisconi, intervenendo nei momenti di crisi tra l‘organizzazione mafiosa ed il gruppo Fininvest (come nella vicenda relativa agli attentati ai magazzini della Standa di Catania e dintorni), chiedendo al Mangano ed ottenendo favori dallo stesso (come nella “vicenda Garraffa”) e promettendo appoggio in campo politico e giudiziario” v. sentenza già sopra citata).

Un reato ancora contestabile

Nessun cenno, dunque, né nel capo di imputazione, né nella descrizione degli episodi in giudizio, alla minaccia rivolta al governo presieduto da Silvio Berlusconi o anche soltanto — ed è ciò che più rileva — ad un ruolo di intermediario svolto da Dell‘Utri tra cosa nostra “e Silvio Berlusconi nella sua funzione di Capo del governo destinatario di una minaccia.

Ma a prescindere da ciò, va, altresì, osservato che, al più, tra il reato già giudicato e quello qui in giudizio v’è il rapporto che può sussistere tra reato associativo e reato-fine della condotta associativa. Ora, il principio del ne bis in idem impedisce al giudice di procedere contro la stessa persona per il medesimo fatto su cui si è formato il giudicato. ma non gli preclude di prendere in esame lo stesso fatto storico e di valutano liberamente ai fini della prova di un diverso reato.

Così, ad esempio, “nel caso di procedimento per il delitto di cui all’art. 416-bis co.pen. e di separato procedimento per i reati fine realizzati, non sussiste la preclusione del “ne bis in idem” ricorrendo l’ipotesi del concorso materiale di reati, perché per il primo la condotta necessaria e sufficiente sta nella prestazione della propria adesione alla organizzazione già costituita, mentre per i secondi la condotta necessaria è quella tipica, fissata nella fattispecie criminosa” (v. Cass. 20 novembre 2014 n. 52645, Montalbano).

Tale ultimo principio, peraltro, è stato affermato dalla Suprema Corte proprio in una ipotesi di concorso esterno all‘associazione mafiosa precisando che “il contributo arrecato al rafforzamento del sodalizio criminoso dal concorrente esterno può essere certamente realizzato attraverso la realizzazione di un delitto fine dell’associazione, ma ciò, altrettanto certamente, non può comportare che il soggetto non debba anche rispondere del suddetto delitto fine” (v. sentenza citata).

[…] Ciò detto, se, come sembra non possa dubitarsi, sarebbe stato possibile contestare in un unico processo tanto il reato di concorso esterno nell‘associazione mafiosa, quanto il reato di concorso nella minaccia rivolta dai vertici di “cosa nostra” nei confronti del governo Berlusconi, non può esservi l‘idem factum nel senso impeditivo cx art. 649 c.p.p. ed il solo mancato coordinamento nel tempo dei due diversi processi nei quali, invece, si è proceduto non può di per sé determinare l’insorgenza del divieto del secondo giudizio, dal momento che, come già osservato per l‘analoga posizione dell‘imputato Mori, nessuna norma, neppure costituzionale e sovranazionale, impone che si proceda per tutti i reati nello stesso processo, nè tanto meno richiede la contemporaneità dei diversi processi seppur eventualmente connessi, che, per fattori occasionali, possono ciascuno avere tempi non conciliabili nella definizione delle diverse vicende procedimentali.

[…] D‘altra parte, anche in concreto, la diversità del fatto emerge dallo stesso oggetto del pregresso processo che, per la parte che qui riguarda, è consistito, come asserito e, quindi, riconosciuto dalla medesima difesa dell‘imputato Dell‘Utri, che, infatti sul punto, ha molto e lungamente insistito (v. trascrizione della discussione all‘udienza del 23 marzo 2018), nel c.d. “patto politico-mafioso” che, secondo la contestazione, era intervenuto nella fase antecedente alle elezioni politiche del marzo 1994 (v. sentenza della prima Corte di Appello sopra citata che ha affermato l‘insussistenza di tale “patto politico-mafioso” integrante la condotta di concorso eventuale nel reato di cui all‘art. 416 bis c.p. ed ha, pertanto, assolto l’imputato Dell‘Utri dalle condotte contestate come commesse successivamente al 1992).

Ora, tale “fatto” così individuato ed indicato dalla stessa difesa dell‘imputato Dell‘Utri, non coincide, neppure temporalmente, con l‘oggetto dei presente processo consistente, invece, nella minaccia al governo consumatasi dopo l‘insediamento di Silvio Berlusconi come Presidente del Consiglio nel maggio 1994 a mezzo di un ‘intermediazione di Dell‘Utri, che non è legata in alcun modo, neppure concettualmente. al “patto politico-mafioso” (negato, come detto, dalla sentenza definitiva di assoluzione), nè da questo necessariamente dipendente, ma piuttosto discende dall‘analoga intermediazione che era stata già utilizzata dai mafiosi anche ben antecedentemente al detto ipotizzato “patto politico-mafioso” e per ragioni del tutto diverse e distinte (v. sentenze irrevocabili in atti prima richiamate). Deve, pertanto, escludersi che nella fattispecie sia ravvisabile l‘ipotesi del divieto di bis in idem, sancito dall‘art. 649 c.p.

Se, dunque, non residuano dubbi sulla piena e legittima procedibilità dell’azione penale nei confronti di Dell'Utri Marcello (quanto al Bagarella l’analoga questione ex art. 649 c.p.p. è stata anche questa già in precedenza affrontata e risolta), occorre adesso entrare nel merito delle dichiarazioni del Cucuzza e dei relativi riscontri, ossia su degli elementi probatori che possono essere rivalutati in questa sede a prescindere dalle valutazioni già espresse nel precedente procedimento penale definito nei confronti di Dell'Utri.

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