La pandemia di Covid-19 ha aperto una finestra sul ruolo chiave dei dati. Indispensabili per una corretta informazione e imprescindibili per una efficace azione politica. Sin dalla prima drammatica ondata, la pandemia ha moltiplicato le emergenze e ha posto sfide importanti. Fra tutte, già nel primo lockdown, il dilemma tra lavoro e salute. Con milioni di lavoratori costretti a subire per primi gli effetti traumatici di un’emergenza sanitaria che ha investito tutto il Paese in brevissimo tempo. I più colpiti, ancora oggi mentre si consuma la seconda ondata, restano gli operatori sanitari.

Dinanzi ai bollettini giornalieri sui contagi e sui decessi torniamo indietro con le lancette dell’orologio al 10 marzo scorso. Quando l’Italia ha scelto, come unica strada percorribile per contenere i contagi, il lockdown generalizzato. Sessantanove giorni, durante i quali mentre migliaia di attività produttive non essenziali sono rimaste chiuse, altrettante, invece, non si sono mai fermate: la filiera agroalimentare, i servizi o la grande distribuzione.

Il 14 marzo 2020 sindacati, governo e Confindustria siglano un protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro. Che verrà poi integrato poco più di un mese dopo con la raccomandazione di intese tra organizzazioni datoriali e sindacali. «Il governo – si legge – favorisce per quanto di sua competenza, la piena attuazione del Protocollo».

Le attività produttive continuano o riprendono grazie ai protocolli anti-contagio, col fine di salvaguardare la salute dei lavoratori: «la mancata attuazione del Protocollo che non assicuri adeguati livelli di protezione determina la sospensione dell’attività fino al ripristino delle condizioni di sicurezza».

A chi spettano i controlli? Chi monitora eventuali focolai sui luoghi di lavoro? «Tantissimo è stato lasciato nelle mani dei datori di lavoro», racconta un ingegnere di una impresa di costruzioni di Roma che conta una ottantina di dipendenti. «Durante il lockdown ci siamo fermati per circa due mesi», spiega. «Quando è stato pubblicato il protocollo di sicurezza anti Covid per i cantieri in una settimana abbiamo cercato di stilare il nostro protocollo aziendale: uno per i cantieri e un altro per l’ufficio. «Il medico del lavoro si è limitato a firmare e non credo che sia mai venuto a fare controlli nei cantieri».

«Qui, le regole da seguire sono obblighi che vanno rispettati, ma molto è lasciato anche alla responsabilità del lavoratore, che abbiamo noi stessi formato prima di riprendere a lavorare tra la fine di aprile e gli inizi di maggio. Al momento abbiamo registrato due casi di contagio, uno tra gli operai e un altro in ufficio. Intanto, affrontiamo costi considerevoli a fronte di un calo del fatturato per la sicurezza anti-contagio, oneri di cui stiamo aspettando il credito d’imposta promesso dal governo».

Nel calcolo dei contagi diffusi dal ministero della Salute è impossibile al momento capire dove il nuovo virus incida di più. Sono state chiuse le scuole, svuotati i trasporti suddiviso l’Italia per zone di criticità. Sono state infine limitate tantissime attività: bar, negozi, ristoranti perché considerati luoghi di contagio. 

Abbiamo raggiunto al telefono l’Istituto Nazionale Assicurazione Infortuni sul Lavoro (Inail) che da aprile scorso ha pubblicato i report mensili sui casi di infortunio conteggiando anche quelli per Covid-19.

Col decreto “Cura Italia”, infatti, il governo ha inquadrato il contagio come «una causa violenta tipica dell’incidente occorso sul lavoro». I numeri diffusi al 31 ottobre vengono considerati dall’Istituto attendibili.

Eppure la premessa è che «noi ci limitiamo ad arrivare a cose già fatte, registriamo le denunce pervenute». E il lavoro ispettivo che «spesso ci sarebbe da fare è troppo grande e complesso rispetto alla capacità dell’Istituto stesso». Da aprile a ottobre si sono registrati circa 66mila infortuni. E per l’industria e i servizi oltre il 55 per cento dei casi riguarda il Nord Ovest. 

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