Saetta previsa vien più lenta (Dante, Canto XVII del Paradiso). Dopo una rincorsa di voci forse diffuse in assenza di autorizzazione, forse lasciate trapelare come ballon d’essai per misurarne l’impatto sui delicati equilibri internazionali, lunedì 20 maggio è sopraggiunta la notizia ufficiale.

Con un annuncio di ben 16 minuti declamato con certosina attenzione, il procuratore della Corte penale internazionale, il britannico Karim Khan, ha reso noto di avere richiesto alla Camera preliminare la convalida di ben cinque mandati di arresto, riconducibili tanto alla leadership israeliana (il presidente israeliano, Netanyahu, e il suo influente ministro della Difesa, Gallant) quanto a quella di Hamas (il vertice dell’organizzazione a Gaza, Sinwar, il comandante militare delle brigate al Qassam, al Masri, e il responsabile dell’ufficio politico, Haniyeh).

È stata sufficiente la “simmetria” di tali accuse a suscitare un’ondata di polemiche internazionali. Tanto più che essa non riguarda unicamente le parti in causa, ma si estende anche ai crimini contestati e finanche ai criteri di imputazione, dal momento che tutti i destinatari sono accusati sia di «crimini di guerra» sia di «crimini contro l’umanità», e che a tutti sono contestate sia le condotte criminali compiute come coautori sia quelle compiute a titolo di superiori gerarchici che non hanno vigilato sui propri subordinati.

Chiaramente l’esito delle richieste è sottoposto al vaglio della Camera preliminare e la circostanza non deve essere sottostimata. Nonostante il procuratore si dilunghi in modo più che persuasivo sulla solidità degli elementi di prova raccolti a sostegno delle accuse che interessano entrambe le parti (testimonianze dei sopravvissuti agli attacchi del 7 ottobre, foto e video autenticati da esperti, prove satellitari degli effetti dei bombardamenti israeliani, audizioni del personale medico di stanza a Gaza, ecc.), la scelta di rendere pubblica la “semplice” richiesta di misure cautelari prima che le medesime abbiano ricevuto l’avallo dell’organo giudicante – come avvenuto nel caso del mandato di arresto nei confronti del presidente della Federazione Russa Putin – suscita qualche legittimo interrogativo.

Tanto più che ai sensi dello Statuto (art. 58) dette richieste sono convalidate dalla Camera preliminare se essa, sulla scorta delle prove addotte, è convinta che ricorrano due condizioni, ovvero: a) che vi sono «fondati motivi» per ritenere i soggetti interessati responsabili dei crimini contestati; «e» — trattasi dunque di condizioni cumulative — b) che l’arresto di tali persone appaia necessario per garantire: i) la comparizione della persona al processo; ii) che la persona non ostacoli le indagini o il procedimento; oppure iii) per impedire che la persona continui a perpetrare i crimini in questione.

La scelta irrituale compiuta dal procuratore può dunque essere interpretata alla luce di considerazioni di più ampia portata, che esondano dall’ambito strettamente procedurale e investono la natura stessa della Corte penale internazionale, un’istituzione nata per ricordare che «tutti i popoli sono uniti da stretti vincoli e che le loro culture formano un patrimonio da tutti condiviso, un delicato mosaico che rischia in ogni momento di essere distrutto», e per ribadire che i delitti più gravi che riguardano l’insieme della comunità internazionale «non possono rimanere impuniti» (dal Preambolo dello Statuto).

In tale prospettiva ampia le critiche e l’indignazione espresse da Israele e dagli Stati Uniti d’America, due Stati entrambi non parte al Trattato istitutivo della Corte penale internazionale (che oggi conta 124 adesioni, e il cui testo definitivo è stato approvato a Roma il 17 luglio 1998, con 120 voti a favore, 21 astensioni e 7 voti contrari, vale la pena ricordare quali: Cina, Libia, Iraq, Israele, Stati Uniti d’America, Qatar e Yemen) meritano di essere contestualizzate.

In fondo, come ha ricordato l’organo d’accusa in quello che è forse la prova (di forza?) più difficile dalla sua nomina, se non dalla fondazione della medesima istituzione, occorre «essere chiari su una questione fondamentale: se non dimostriamo la nostra volontà di applicare il diritto in modo equo, se esso viene interpretato come selettivo, creeremo le condizioni per il suo collasso. Così facendo, allenteremo i legami che ancora ci tengono uniti, le connessioni stabilizzanti tra tutte le comunità e gli individui, la rete di sicurezza a cui tutte le vittime guardano nei momenti di sofferenza. Questo è il vero rischio che corriamo in questo momento».

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