Il porto mediterraneo di Ashkelon è oggi uno dei due principali scali energetici di Israele, snodo dei traffici di gas e petrolio sul Mediterraneo, ma per la direzione distrettuale antimafia e antiterrorismo che ha iniziato a indagare per riciclaggio sulla società petrolifera Saras e su una possibile rete di contrabbando del petrolio lungo le vie del Mare Nostrum, Ashkelon è soprattutto un porto fantasma.

Inizia da qui l'ultima tappa dell'inchiesta realizzata da Domani per raccontare il lato oscuro del commercio del petrolio. Centinaia di documenti societari e giudiziari messi assieme svelano l'intreccio di storie e affari che seppure apparentemente slegate tra loro trovano forti connessioni per via degli stessi personaggi che si muovono sullo sfondo: mediatori, imprenditori e uomini d'affari, nomi che tornano sulle rotte del contrabbando.

Illustrazione di Valentina Vinci

Un business che provoca un danno per le casse dello Stato enorme: negli ultimi cinque anni l'evasione delle accise e dell'Iva ha provocato un ammanco di dieci miliardi, in pratica ogni anno vengono evase imposte per due miliardi.

Per ricostruire questo flusso carsico di denaro che appare in chiaro e poi scompare, bisogna seguire il lungo tragitto dai territori di estrazione fino alle nostre pompe di benzina ed è un punto che si passa per i depositi di insospettabili aziende.

L'ultima puntata dell'inchiesta parte dal porto “fantasma” di Ashkelon e arriva in Sardegna, all'azienda della famiglia Moratti.

I DOCUMENTI DI CAGLIARI

La direzione anti-frode dell'ufficio dogane di Cagliari ha trovato il nome del porto su alcune bollette di importazione del greggio sequestrate nel giugno del 2016 alla Saras, la società petrolifera della famiglia Moratti, ma quei documenti presentano talmente tante anomalie che gli inquirenti ipotizzano che siano dei falsi. E che siano stati utilizzati per confondere letteralmente le acque, e coprire le rotte vere: quelle di un traffico illecito di petrolio che parte dal Kurdistan iracheno, fino al 2017 occupato dalle milizie dei terroristi dell'Isis, e tramite la Turchia e una azienda associata all'ex ministro dell'Economia turco,

Questa è la storia di come la società della famiglia Moratti ha importato in Italia petrolio per un controvalore di circa 1,2 miliardi di euro finendo al centro di un'inchiesta per contrabbando, riciclaggio condotta dalla guardia di finanza. Una storia fatta di carichi navali, di organizzazioni criminali tra Italia e Malta e di giornalisti turchi a processo per terrorismo.

Tuttavia questa è una storia anche italiana: inizia a Cagliari, quando i funzionari dell'agenzia delle dogane si accorgono che qualcosa nei traffici internazionali del petrolio sta cambiando.

L'ORIGINE DEL GREGGIO

C'è una nota del 12 aprile 2016 che spiega cosa sta succedendo: dal secondo semestre del 2014 c'è stata «una inversione dei poli di provenienza e origine riguardanti il petrolio greggio ed il gasolio di origine e provenienza turca e russa importato in Italia , in particolare presso gli Uffici doganali di Sicilia e Sardegna».

Aumentano le risorse del primo petrolio quello di provenienza turca ma di origine irachena e diminuiscono quelle del secondo di origine russa.

La direzione intelligence inizia ad analizzare le bollette di importazione delle tonnellate di greggio importate per tutto il 2015 e il 2016 di origine irachena e a giugno 2016 sequestra i documenti della multinazionale dei Moratti, ma anche quelli della capitaneria di porto: analizzandoli scopre che troppe cose non tornano.

I prezzi, per cominciare. La maggior parte delle operazioni di importazione di Saras dall'Iraq, 51 su 72, sono acquisti dalla Petraco Oil Company, ramo svizzero di una società britannica con sede nell'isola di Guernsey, paradiso fiscale nella black list europea, che emette fattura tramite la sede di Monaco di Unicredit.

Sono acquisti molto vantaggiosi, troppo: sono sotto la soglia di mercato «mediamente per oltre il 22 per cento, con punte del 38-42 per cento».

La seconda anomalia: i documenti. In almeno ventuno operazioni analizzate mancano certificati validi di origine del greggio. E le bolle di importazione, cioè i documenti che accompagnano i carichi sulle navi, confondono le rotte.

La maggior parte delle bolle indica come mittente l'azienda turca Powertrans e come destinatario una azienda con sede nel paradiso fiscale delle Virigin Island: la Edgewaters Falls. In alcuni casi è indicata la provenienza israeliana, in altri turca o egiziana, ma le carte si contraddicono.

IL GENERO DI ERDOGAN

Un carico di 98 mila 500 tonnellate di greggio importato dalla nave Vinga nel febbraio del 2015 è accompagnato dal timbro della Iraq mercantile maritime service limited, una società cipriota che però risulta inattiva, mentre nella bolla di carico è indicato il passaggio nel porto di Ashkelon in Israele. Non c'è nessuna firma oltre a quella del capitano. Lui stesso ha dichiarato che negli stessi giorni si trovava impegnato in operazioni di carico da barca a barca davanti a Port Said, in Egitto. Queste operazioni da nave a nave, il metodo è conosciuto con il nome ship to ship , tornano spesso e servono a confondere, secondo chi indaga sul network dei contrabbandieri.

I doganieri trovano più certificati per gli stessi viaggi a firma di mittenti diversi, tanto che ipotizzano «che tali documenti siano stati emessi senza alcun vincolo, al solo fine di fornire documentazione ad uso dei destinatari».

In alcuni casi c'è un certificato della camera di commercio turca o un timbro del governo regionale del Kurdistan, ma nella maggior parte dei casi all'ufficio doganale viene presentato solo un documento su foglio bianco senza intestazione e non rilasciato da un'autorità pubblica » .

RISPOSTE «SFUGGENTI»

Le autorità turche e quelle italiane collaborano per ricostruire le rotte dei carichi, ma quando gli italiani chiedono come mai la società Powertrans non sono normali certificati di origine, ricevono risposte «elusive». La spiegazione che le autorità potrebbero dare è che Powertrans non è una società qualunque.

«Nel 2016 un gruppo di hacker ha inviato a me e ad altri giornalisti un database di migliaia di mail», racconta Tunca Ogreten, giornalista investigativo turco che ora lavora per il giornale tedesco Deutsche Welle. In quella mail c'era scritto che la persona che decideva tutto dentro alla Powertrans, azienda, formalmente controllata dalla due società di Singapore, era Berat Albayrak.

Berat Albayrak con il presidente turco Recep Tayyip Erdogan (AP Photo/Lefteris Pitarakis, File)

In Turchia sanno tutti di chi parliamo: Albayrak è nientemeno che il genero del presidente turco Recep Tayyp Erdogan. All'epoca era ministro dell'Energia e dal 2018 fino al novembre scorso è stato il ministro dell'Economia e delle finanze, protagonista anche della stagione della crisi monetaria della lira turca.

Ogreten racconta di aver perso un anno di vita per aver scritto del ruolo di Albayrak nella Powertrans.

Dopo quella rivelazione, sono arrivati a casa sua all'alba e lo hanno arrestato con l'accusa di associazione terroristica. È stato trecento giorni in custodia, ha ancora un processo pendente.

In quelle mail arrivate sulla sua casella di posta si raccontava che la Powetrans importava petrolio dal Kurdistan e «cercava di nasconderne l'origine facendo passare il prodotto come israeliano», spiega il cronista.

Il suo racconto fa combaciare i pezzi delle due storie, quella turca e quella scoperta dai detective dell'antimafia di Cagliari.

Gli investigatori italiani ipotizzano che i pagamenti tra Powertrans e Edgwaters Falls servano a far transitare dalle banche e dagli intermediari turchi - in questo caso tramite Vakifbank - i pagamenti del petrolio curdo, senza l'autorizzazione del governo iracheno. A lungo, infatti, tra il 2014 e il 2017 le tensioni sulla destinazione dei proventi del petrolio tra il governo centrale di Baghdad e quello regionale curdo hanno portato alla rottura degli accordi che ne regolavano la commercializzazione.

L'ORO "SPORCO"

In questo scenario, si affaccia anche una ipotesi peggiore. Gli inquirenti temono che quei soldi abbiano pagato non solo petrolio curdo venduto di contrabbando, ma anche petrolio dei pozzi controllati in quegli anni dalle milizie dello stato islamico. Temono dunque che i fondi per “l'oro sporco” abbiano finanziato i terroristi.

Nei documenti letti da Domani chiedono di verificare la presenza dell'Isis nel territorio. Di certo c'è che l'uomo che in quel periodo è considerato il riferimento dei governi occidentali per acquistare il greggio dai giacimenti curdi, Ali Lakhani Murtaza, passa da Milano a fine dicembre ed è in compagnia dei dirigenti proprio della Petraco.

Il nome di Murtaza è tra i passeggeri del volo privato che parte da Londra alle 19.50 del 17 dicembre 2016 con destinazione Malpensa.

Poche ore dopo, alle 21.46, il broker riparte per Londra, mentre i dirigenti della Petraco proseguono verso Erbil, nel Kurdistan iracheno.

Leggi la replica di Petraco

LE ROTTE DEL DENARO

Dopo le rotte delle navi e quelle degli aerei, bisogna seguire quelle del denaro. Il fiume è carsico e solo una ventina di operazioni tra le 72 che legano la Petraco alla Saras sono tracciate. La prima parte della filiera è quella che dal Kurdistan porta il petrolio in Turchia e poi in Italia.

Lo schema ricostruito nei documenti inediti spiega che fino a luglio 2015 il greggio veniva estratto in Kurdistan, acquistato da Powertrans, rivenduto a Edgewater Falls ed eventualmente rivenduto altri intermediari. Per esempio la Galtrade Ltd o la Bb Energy trading, entrambe società delle Isole Vergini, o ancora alla Kazmunaygas e poi ancora alla Petraco Oil per arrivare infine a Saras.

Petraco e Bb Energy trading hanno una cosa in comune: la banca in cui hanno il conto corrente è l'Unicredit di Monaco meglio conosciuta come Hvb, la sesta banca tedesca. Una coincidenza considerata «alquanto anomala», anche perché è la stessa banca che custodiva il conto corrente della Edgewater Falls dove secondo le mail il governo regionale avrebbe depositato uno storno di sessanta milioni di dollari.

Unicredit interpellata su questa anomalia e sulle operazioni bancarie legate alle indagini non ha voluto commentare.

A fine dicembre dieci giorni dopo quel volo privato su Malpensa, la Saras dei Moratti realizza tramite la sua controllata Saras Trading e tramite Ubi Banca, cioè la società di cui allora Letizia Moratti è presidente, una operazione di cessione di crediti: il beneficiario è la stessa Petraco che le vende il petrolio, tanto che la procura di Brescia prima e ora quella di Cagliari ipotizzano che si tratti di una operazione di riciclaggio e auto riciclaggio.

Ubi Banca era già stata sanzionata dalla vigilanza della Banca d'Italia per l'insufficienza dei suoi presidi antiriciclaggio. Ma anche questo istituto di credito non ha risposto alla nostra richiesta di commento.

Oggi Petraco è una società di diritto britannico che ha come soci due aziende nel paradiso fiscale dell'isola di Guersney. Ma secondo i documenti le società britanniche sono collegate alla Petraco Spa società italiana fondata negli anni Settanta, che a Milano ha operato fino al 2013, allora controllata per il 98 per cento dalla Compagnia fiduciaria lombarda Spa.

Per Saras le operazioni “sottocosto” con la Petraco rappresentano il dodici per cento di quella tipologia di importazioni, «tanto che è ragionevole supporre che le dinamiche commerciali siano note a livelli apicali del management» si legge nei rapporti investigativi. Operazioni che corrispondono a un periodo in cui l'azienda registra meno spese, meno ricavi e valori molto positivi di ritorno dell'investimento.

La Petraco, però, è una delle poche aziende che si confronta anche sull'altro lato della filiera di Saras e della rete di presunto contrabbando. E qui torniamo alle anomalie dei documenti. Dopo aver raffinato il petrolio, la Saras lo vende, ma per le operazioni prese in esame dagli investigatori senza che sia noto «il destinatario finale», quindi l'identikit di chi paga.

In alcuni casi per esempio viene indicata una banca estera con il paese di destinazione Gibilterra e poi la bollette viene rettificata, indicando come destinatario la società slovena, Petrol DD Ljubljana, senza però modificare il paese di destinazione che resta Gibilterra. La Petro DD Lubiana, la principale società petrolifera slovena, è citata in numerose segnalazioni di sospetta frode iva e accisa sui carburanti. I rapporti tra Saras e Petro DD valgono solo nel 2017 quasi 125 milioni di euro. E in diverse fatture della società slovena compare anche la Petraco.

Ma le rotte di esportazione della Saras non si fermano qui. Ci sono «rapporti economici commerciali intrattenuti da Saras con società contigue ad ambienti di criminalità organizzata».

Le tracce questa volta portano ai clan dei casalesi, cosche di Catania e alle reti criminali dell'isola di Malta.

LA RETE MALTESE

Gli inquirenti ipotizzano, infatti, che la criminalità organizzata catanese stia in qualche modo gestendo il traffico di carburante proveniente via mare dalla Libia, dalla Siria e dall'Iraq, attraverso la creazione di società maltesi e società finanziarie di diritto estero utilizzate per far confluire il denaro ottenuto dai traffici illegali.

A Malta, stato al centro di intrecci finanziari non sempre limpidi ma che permette un facile accesso al mercato dell'Unione europea, emerge la figura di Gordon Debono.

Secondo i documenti investigativi Debono è uno dei principali attori del canale di approvvigionamento maltese e risulta «più volte implicato in casi di contrabbando».

Diverse società a lui riconducibili hanno intrattenuto scambi commerciali con la galassia di società coinvolte nell'inchiesta su Saras e contemporaneamente in diverse aziende ci sono esponenti dell'ambiente catanese.

PIÙ DI UN MILIONE DI EURO

Una serie di rapporti investigativi svelano come l'azienda maltese Petroplus Ltd, di Debono, abbia ricevuto oltre un milione di euro tra il 2015 e il 2016 dalla raffineria sarda di Saras e ne abbia versati più di cinque alla Saras Spa.

Insomma, Debono ha goduto di fiducia nel mercato del greggio a livello internazionale. Anche il colosso russo Lukoil. per esempio, ha fatto affari per due milioni con Petroplus.

C'è anche una seconda società di Malta che indirettamente con Saras e direttamente con Petroplus ha chiuso diversi affari: è la San Lucian Oil della nota famiglia isolana Falzon, ritenuta vicina alla politica maltese. Alcuni anni fa suoi esponenti erano stati coinvolti in indagini sul carburante illecito. Tra le navi finite al centro dello scandalo una era di Gordon Debono.

Negli atti giudiziari di Catania la San Lucian è, infatti, citata come acquirente della merce importata da Debono. In effetti nei report degli investigatori è confermata questa ipotesi: tra il 2015 e il 2016 la società riconducibile a Debono ha intrattenuto scambi commerciali per oltre due milioni di euro con San Lucian. Non è la sola, nel flusso di denaro dell'epoca, 127 milioni di euro, troviamo anche un'articolazione del colosso di stato italiano: Eni trading and shipping ha avuto rapporti economici con l'impresa della famiglia Falzon per più di un milione.

Nell'inchiesta che ha coinvolto Gordon Debono, emergono poi altre due società che commerciano prodotti petroliferi, la Maxcom Petroli Spa e la Maxcom bunker Spa.

L'amministratore della Maxcom Petroli Spa, ormai ex, Marco Porta è indagato insieme a Debono. Secondo i documenti erano coinvolti nel presunto contrabbando architettato dalla stessa rete criminale. Entrambe le società risultano aver fatto affari con la Saras rispettivamente per 175mila e per oltre 1,3 milioni. Relazioni commerciali che confermano la caratura dei maltesi e del loro giro: credibili a tal punto da concludere affari con i colossi del petrolio.

Capitolo 2

Il canale libico

C'è un mercato fiorente e inarrestabile che collega Libia, Malta e Italia. È il mercato del carburante illegale che vale miliardi, al centro di faide sanguinarie e di un sistema corruttivo diffuso.

Ci sono le barche da pesca usate per il trasbordo del gasolio e della benzina, ci sono i fucili usati per ammazzare i soldati delle milizie avversarie, ci sono i soldi che girano dai due lati del mare tra i trafficanti libici e quelli italiani che riversano in patria il carburante illegale. I libici usano i soldi per garantirsi controllo territoriale, capacità corruttiva e continuazione del conflitto, gli italiani guadagnano perché comprano a poco il prodotto petrolifero sbaragliando la concorrenza.

Il patto criminale tra sodalizi libici, maltesi e italiani resta intatto nonostante le inchieste giudiziarie. Le indagini non riescono a interrompere gli affari e le richieste di estradizione delle autorità italiane nei confronti dei boss libici sono carta straccia in quella terra caotica che è la Libia. Il petrolio e il carburante seguono tre grandi rotte: Iraq-Turchia-Europa; Polonia-Slovenia-Italia; Libia-Malta-Italia. Quest’ultimo è un tragitto che incrocia gli interessi di chi investe anche sul primo percorso seguito dal contrabbando.

ALLE ORIGINI DEL CONTRABBANDO

Il traffico di esseri umani di cui tanto si parla ne cela in realtà un secondo e un terzo: petrolio e armi, a gestirli sono sempre gli stessi. Come funziona e chi ci guadagna lo spiega un ufficiale della marina libica e due agenti della guardia costiera che fino a un anno fa, a La Spezia, hanno frequentato corsi di aggiornamento tenuti dalla nostra polizia per formarsi dopo gli accordi voluti dall’ex ministro Marco Minniti con il memorandum Roma-Tripoli, con l’obiettivo di trasformare i guardia coste libici in una polizia del mare in grado di bloccare le partenze dei migranti.

Un ex manager della National oil corporation (Noc), la compagnia nazionale petrolifera libica, ci spiega, invece, come è nato questo mercato del petrolio sporco che non conosce crisi. La produzione di gasolio e benzina, in Libia, è affidata alla raffineria di Zawiya. Prima del 2011 erano in funzione anche altre due raffinerie poi chiuse. La compagnia di bandiera è la Brega petroleum marketing company, sussidiaria della Noc, ma a occuparsi della distribuzione ci sono quattro società che riforniscono le stazioni di benzina. Quest’ultimo passaggio è l’anello debole, il varco usato dai contrabbandieri.

«Sul litorale di Zuara c’è una fila infinita di stazioni di servizio: in dieci chilometri trovi venti stazioni che non hanno neppure una pompa di benzina funzionante. Sono abbandonate, c'è in bella vista il logo della società di distribuzione, ma dietro il recinto non trovi niente», dice l'ex manager del Noc. Stazioni di benzina che sono il meccanismo di approvvigionamento illecito del carburante perché non ci sono controlli a differenza di quanto accadeva durante il lungo regime di Gheddafi.

«Il trasporto avviene in autocisterne con una capacità di carico di 40mila litri. Si dovrebbe autorizzare l’autocisterna con una ispezione iniziale munendola di un contatore, ma nella realtà non c'è alcun controllo sulla sorte di quel prodotto, l'importante è solo il pagamento. Quando tutte le stazioni erano proprietà dello Stato non era così, c’era controllo, c’erano autorizzazioni e sigilli ai contatori. Il traffico illecito parte proprio quando arriva il carico alla stazione di servizio», dice ancora l’ex alto dirigente. La stazione di servizio compra, ma non eroga alcun prodotto, i litri di greggio prendono la strada del contrabbando destinato all’Italia.

In questi anni a Zuara, nella zona di Abu Kammash i contrabbandieri hanno costruito grandi depositi che vengono riforniti con le autocisterne che dovevano arrivare nelle stazioni di benzina. I depositi sono collegati con il mare attraverso tubi che iniettano il prodotto in piccole navi, che caricano e partono. Queste imbarcazioni passano il loro carico a pescherecci in alto mare che si dirigono, per lo più, verso Malta. Poi c’è il traffico che avviene direttamente nel porto di Zuara dove le autocisterne, invece di dirigersi verso la stazione di benzina di destinazione, scaricano direttamente su navi attraccate.

C'è un’isola, in Libia, si chiama Farwa, che è controllata dalle milizie e si è trasformata in un enorme stoccaggio di greggio illegale. «Ci sono grandi stazioni di pompaggio, proprio come quelli che vedi nei porti. Questi impianti servono per pompare la benzina all'interno di tubi sotto acqua che vengono agganciati a una grande nave», dice l’ufficiale della marina libica. In questo gigantesco affare le milizie hanno un ruolo centrale.

I RAS DEL TRAFFICO

Chi sono i signori del traffico di carburante? Uno degli uomini di questo traffico è sicuramente Abd al-Rahman al-Milad, meglio noto come Bija, di recente arrestato dalle autorità libiche. Agente della guardia costiera, sospettato come trafficante di uomini, ma soprattutto come trafficante di petrolio. «È il pupillo dell'imperatore del traffico di petrolio in Al Zawiya, Mohammed Kachlaf, meglio noto come al Qasab», racconta l'ex manager del Noc.

Al-Qasab o al-Hadi è indicato come uno dei signori del traffico di uomini e non solo. Il consiglio dell'Unione europea ha diramato una nota, lo scorso febbraio a proposito di questo soggetto segnalando la sua pericolosità. «È il capo della brigata Shuhada al-Nasr a Zawiya, nella Libia occidentale. La sua milizia controlla la raffineria di Zawiya, polo centrale delle operazioni di traffico dei migranti (…) Come indicato da varie fonti, la rete di al-Hadi è una delle reti predominanti nel settore del traffico dello sfruttamento dei migranti in Libia. Al-Hadi ha numerosi legami con il capo dell'unità locale della guardia costiera di Zawiya, Abd al-Rahman al-Milad, la cui unità intercetta le imbarcazioni che trasportano migranti, spesso appartenenti a reti rivali di trafficanti di migranti. I migranti sono poi portati in strutture detentive sotto il controllo della milizia Shuhada al-Nasr, dove sarebbero detenuti in condizioni critiche. Il gruppo di esperti sulla Libia ha raccolto prove secondo cui i migranti erano spesso vittime di percosse. Ha inoltre concluso che al-Hadi collabora con altri gruppi armati ed è stato coinvolto in ripetuti scontri violenti nel 2016 e nel 2017», si legge nella nota europea che documenta i traffici e gli affari del criminale libico.

La guerra tra milizie, quelle di Zintan e Zawiya, è un'eterna guerra tra due potenti gruppi dovuta non solo al traffico di migranti, ma soprattutto al commercio illegale di carburanti.

Altri due signori dei traffici sono stati coinvolti in una inchiesta della procura di Catania, ma sono tuttora latitanti. Sono state inoltrate richieste di estradizione, rimaste lettera morta. L'inchiesta, ribattezzata “Dirty oil”, è del 2017, condotta dalla guardia di finanza. Il processo in corso è l’accusa a una rete di trafficanti che portavano, attraverso la falsificazione dei certificati di origine del prodotto, in depositi fiscali italiani, dove viene stoccato e poi distribuito. Il gasolio proveniva dalla raffineria libica di Zawiya. Trasportato dalla Libia anche attraverso operazioni ship to ship a largo di Malta: una nave più grande consegna in alto mare a un’imbarcazione più piccola.

Dall’inchiesta di Catania emerge il ruolo Tareq Dardar, la giustizia italiana lo cerca da tre anni. Il suo è un profilo da contabile, da «collettore di flussi finanziari», si legge nelle carte dell'inchiesta. Uno degli imputati il titolare della Maxcom, Marco Porta, pagava i trafficanti attraverso conti correnti tunisini verso conti esteri, in Libia e negli Emirati Arabi, riconducibili al trafficante Fahmi Ben Khalifa.

Tareq Dardar per incassare i pagamenti aveva costituito una società tunisina, gestita però da Malta da Darren Debono, ex calciatore maltese, e da Nicola Orazio Romeo, vicino al clan mafioso siciliano Santapaola, entrambi sotto processo.

Ascolta l’intercettazione tra Debono e un suo socio agli atti dell'inchiesta di Catania

Il gruppo che ha gestito uno dei traffici più imponenti degli ultimi anni usava tra i depositi fiscali anche la società veneziana Decal destinataria di milioni di euro dall'Unione europea ma non indagata. Un deposito che figura in tutte le recenti inchieste sul greggio illegale, inchieste che coinvolgono clan di camorra e di mafia.

Leggi anche: Iva, accise e depositi: come funziona la truffa di Vanessa Ricciardi

Capitolo 3

CLAN, PETROLIO E SHOWGIRL

«Io guadagnavo tremila euro a cisterna, a viaggio, il prodotto lo prendevo a Maribor e in altre città slovene». Brescia, poco lontano dal centro città, in campagna, in fondo a una stradina c’è un casolare. Seduto su una sedia c’è un uomo, per raggiungerlo attraversiamo un piazzale pieno zeppo di enormi taniche vuote. Di mestiere fa il trafficante di gasolio da anni, dice: «Sono uscito dal giro». La Lombardia è solo uno dei territori più floridi per il mercato del carburante illegale. La testimonianza raccolta da Domani spiega solo una parte del giro d’affari delle commercializzazione del carburante di contrabbando, un segmento parallelo al mercato lecito che vale miliardi di euro e ha provocato un danno alle casse dello stato pari a 1 miliardo all’anno, 10 nell’ultimo decennio.

Ai dati del ministero dell’Economia si aggiungono quelli elaborati dalla Guardia di finanza: dal 2017 al 2019 i finanzieri dei reparti investigativi hanno condotto oltre 11mila interventi di contrasto al fenomeno, gestito 1.500 deleghe di indagini, recuperato 637 milioni di euro di accise evase, sequestrato 33 milioni di litri di carburante sospetto e arrestato 137 persone, che sommate alle 70 fermate nell’ultima operazione condotta dalle quattro più importanti procure antimafia d’Italia (Catanzaro, Reggio Calabria, Napoli e Roma) superano i 200 coinvolti.

L’inchiesta Petrolmafia Spa è la più recente in ordine temporale: la procura di Catanzaro guidata da Nicola Gratteri si è occupata del versante calabrese dominato dalla ‘ndrangheta e dai clan di Vibo Valentia; Napoli con il procuratore Giovanni Melillo ha coordinato, insieme all’antimafia di Roma con il suo omologo Prestipino, il nucleo centrale dell’operazione contro la famiglia Moccia e gli imprenditori insospettabili al loro servizio che hanno garantito alla camorra di entrare nel mercato dei petroli; infine Reggio Calabria, con il procuratore Giovanni Bombardieri, si è occupata delle cosche della provincia reggina, su tutte i Piromalli, potente dinastia attiva fin dagli anni Settanta.

Una sinergia investigativa che ha pochi precedenti e che dà la cifra del fenomeno svelato: un network nazionale, con satelliti ovunque nel paese e all’estero, collegato con i centri di rifornimento come Libia e Malta. Un grumo di clan tenuto assieme dal business del momento.

In questo intreccio tra potere e crimine, imprenditoria e clan, tra i protagonisti al centro della scena c’è una una showgirl legata all’agente dei vip Lele Mora. È ricca, molto ricca, a tal punto da viaggiare verso il festival del cinema di Cannes con una Rolls Royce carica di contanti. Per capire la sua importanza in questa storia dobbiamo tornare al maggio 2019. Quando al confine con la Francia, Anna Bettozzi, in arte Anna Betz, viene fermata dalla guardia di finanza mentre era alla guida della lussuosa fuoriserie con a bordo 300mila euro. Solo una parte del malloppo: gli investigatori che la bloccano perquisiscono anche la stanza del celebre hotel Gallia di Milano, dove nella suite della donna hanno trovato altro denaro. Il totale alla fine sarà 1 milione e 700mila euro in contanti, confezionati sotto vuoto e custoditi in quattro borsoni.

Betz è la vedova di Sergio De Cesare, petroliere coinvolto, prima di morire nel 2015, in una mega inchiesta per una presunta frode sull’Iva. La donna è famosa nei salotti e nelle terrazze romane, lo scorso anno ha cantato a una festa mentre brindava con il deputato Cosimo Ferri e l’ex magistrato Luca Palamara, i due volti più noti dello scandalo Csm. Ma Betz la ricordano anche per le esibizioni alle feste di Silvio Berlusconi, che la showgirl-petroliera definisce, intercettata, «socio».

Due anni fa alcune riviste di gossip hanno raccontato che Lele Mora aveva iniziato una collaborazione con la diva Betz per promuovere l’azienda petrolifera. L’immagine prima di tutto: negli atti dell’inchiesta Petrolmafia (tra gli arrestati c’è anche la donna) si legge dell’ingaggio dell’attore Gabriel Garko per sponsorizzare la società romana. «150mila euro versati in contanti» all’attore diventato celebre con la fiction L’onore e il rispetto. Il denaro usato per pagare il volto di Garko, secondo i detective, proveniente dal traffico illegale.

Attorno alle società Di Cesare-Betz girano gli interessi di un brand che è la storia criminale della camorra napoletana: i Moccia di Afragola, clan dai metodi raffinati e silenziosi.

MOCCIA E POTERE

Dai salotti romani della Betz arriviamo al quartiere Parioli di Roma. Qui vive Luigi Moccia, oggi al 41 bis, il carcere duro, dopo anni di bella vita in città. Il fratello Angelo Moccia, detto Enzuccio, è tornato in carcere. Antonio Moccia, il fratello, era libero fino all’operazione Petrolmafia Spa, arrestato nell’inchiesta coordinata da quattro procure. Antonio è indicato dai pentiti come il capo. Accuse che Antonio respinge categoricamente, anche se su di lui pende un processo per associazione mafiosa che è iniziato nel 2011 e il primo grado di giudizio deve ancora concludersi. Nove anni, con la procura che chiede inutilmente al tribunale di velocizzare. Gli uomini di Antonio Moccia sono stati condannati nel 2016 a pene pesanti, la sua posizione è stata separata e il dibattimento procede lentissimo.

© Angelo Carconi

BOSS E VIP

Il destino ha fatto incrociare Moccia con la diva Betz e la società Max petroli. A svelarlo sono fascicoli giudiziari, le intercettazioni, i documenti societari analizzati. E i rapporti investigativi confluiti nell’indagine Petrolmafia. Il punto di contatto tra la camorra e Betz è un imprenditore di nome Alberto Coppola, pure lui arrestato nell’operazione antimafia.

Moccia mostra il suo interesse nel settore attraverso una società: la New Service, controllata dal cugino, l’imprenditore Alberto Coppola. «Il deposito di Anna Bettozzi è fiscale...è il mio e di mio cugino Antonio... se io ho bisogno di soldi vado da mio cugino che sarebbe quello di Afragola i Moccia quelli abitano a Roma e mi serve 1 milione... 500mila io non ho problemi... sono persone di un certo spessore e serietà», dice intercettato al telefono. Il gruppo familiare dei Coppola è nel settore con diverse sigle, attive nel grande affare petrolifero. Non c’è solo l’interesse per i depositi fiscali, ma la gestione diretta di pompe di benzina, di linee di trasporto marittimo.

Max Petroli di Anna Betz, lo scorso novembre, ha subito anche un sequestro nell’ambito di una inchiesta della procura di Lecce. Un’indagine che contesta l’associazione a delinquere finalizzata ai reati di contrabbando di gasolio agricolo, emissione ed utilizzo di fatture false, riciclaggio ed auto-riciclaggio.ra gli indagati c’era anche Virginia Di Cesare, la figlia di Anna. «Dallo scorso anno ho ceduto le quote societarie, la faccio chiamare dal nuovo amministratore», dice Di Cesare a Domani, contattata alcune settimane prima che venisse indagata nell’inchiesta sui clan. Non ha mai più richiamato. La Max Petroli oggi si chiama Made Petrol.

«SOLDI AL FESTIVAL DI CANNES»

Contatta Anna Bettozzi, anche lei prima dell’arresto, ha fornito la sua versione al nostro giornale. Rivela alcuni dettagli importanti, fa nomi di grossi gruppi industriali petroliferi e si è difesa dall’accusa di essere vicina alla camorra. Sul milione ritrovato sulla Rolls Royce dice: «Si tratta dei risparmi di mio marito, il compianto Sergio Di Cesare, sono stati ereditati, su quelli abbiamo anche pagato le tasse. Li portavo in auto in contanti perché siamo stati sponsor del festival di Cannes e andavo in Francia per pagare la nostra quota». Ma perché aveva tutti quei soldi e un altro milione e mezzo nelle cassette di sicurezza? «Era l’eredità di mio marito. I 300 mila euro, invece, li portavo in Francia». E perché? «Siamo sponsor del festival di Cannes, non portavamo all’estero i soldi». Abbiamo capito bene?, chiediamo. «Eravamo sponsor, come Maxpetroli, del festival cinema di Cannes», ribadisce la donna dei misteri.

Ascolta l’audio esclusivo dell'intervista a Bettozzi

Sulle intercettazioni di Coppola, che sostiene di essere proprietario del deposito fiscale, Anna Bettozzi spiega: «Il deposito fiscale è mio, come risulta dalla documentazione, queste sono fantasie, ognuno a telefono può dire quello che vuole. Io questo Coppola, che mi sembra pure una brava persona, lo avrò visto due tre volte, di mestiere fa il trasportatore». Bettozzi, aveva aggiunto: «Ogni anno riceviamo 85 controlli della guardia di finanza, tutto è tracciato, se poi una società dopo mesi non paga le imposte non dipende da noi, chiariremo tutto perché noi agiamo nel rispetto delle regole e non abbiamo emesso fatture false, siamo una famiglia che ha una grande tradizione alle spalle». Bettozzi si è congedata con un annuncio di marketing aziendale che traccia il nuovo raggio d’azione degli investimenti: «Ci stiamo impegnando nel settore delle rinnovabili per allargare e diversificare i settori di business». La storia della diva prestata al petrolio è, però, momentaneamente stata frenata dall’incidente giudiziario insieme agli uomini della camorra.

DECAL E COINCIDENZE

Seguendo questo filo sottile, reso ancor più netto dall’ultima indagine antimafia, troviamo sigle che, senza essere coinvolte direttamente, sono citate con frequenza negli atti dei detective in ogni inchiesta che riguarda le rotte illegali del petrolio.

Tra queste c’è Decal che si occupa di scarico di petroli e affini. Torna spesso come luogo di destinazione dei traffici, seppure mai sfiorata da sequestri, indagini o arresti. È il maggiore deposito costiero di oli minerali, ha una storia antica, una guida sicura nelle mani della famiglia Triboldi, originari di Soresina, provincia di Cremona. Hanno iniziato oltre un secolo fa con una piccola azienda di cera poi sono diventati una holding. La loro fortuna: l’esclusiva dell’importazione della cera dall’Unione Sovietica. Solo dopo è arrivato il grande affare dell’oro nero con la grande area di stoccaggio a Marghera, nel porto, dove attraccano petroliere e scaricano il prodotto. Agli atti dell’indagine in cui è coinvolta Betz insieme ai Moccia, il prestanome del clan avrebbe «incontrato un rappresentante di Decal». Avrebbero parlato di ingenti quantita di carburante da fare arrivare via mare. Il nome Decal lo ritroviamo, correva l’anno 1984, in una retata della Guardia di finanza di Venezia che ipotizzava un’evasione di imposte per decine di miliardi di vecchie lire, a valle di denunce archiviate, finanzieri solerti trasferiti e superiori arrestati per mazzette. «Secondo quanto si è appreso, nel rapporto sarebbero state ipotizzate alcune presunte irregolarità nel calcolo degli arrivi dei quantitativi degli oli minerali scaricati all’interno dei serbatoi della Decal», si legge sulle agenzie dell’epoca. Usciti indenni da quella storiaccia, il nome dell’azienda Decal la ritroviamo nel 2019 in una copiosa informativa della direzione nazionale antimafia ottenuta da Domani.

Decal ritorna negli affari di un gruppo di imprenditori connessi anche alla mafia siciliana coinvolti nell’inchiesta della procura di Catania con ras del settore a Malta e in Libia. Questa banda avrebbe dovuto depositare a Porto Margheta il greggio una volta arrivate in italia le petroliere. L’azienda di Marghera, anche in questo caso è estranea all’indagine, appare come terminale del prodotto importato dall’organizzazione. Gli atti dell’inchiesta, infatti, rivelano come i carburanti commercializzati venivano acquistati dalla Maxcom Bunker, sotto inchiesta, «presso i porti di Augusta, Civitavecchia e Venezia, in conto deposito presso i depositi fiscali della Maxcom Petroli s.p.A., della Sodeco e della Decal».In pratica alle autorità doganali italiane veniva presentata «la falsa documentazione di carico corredata dal falso certificato d’origine emesso dalla Petroplus ltd, vidimato e timbrato dalla “Libyan Maltese Chamber of commerce di Balzan” di Malta». Gordon Debono, il ras maltese del traffico, avrebbe avviato, con la sua società Petroplus, la commercializzazione in Italia dei prodotti petroliferi e avrebbe «per il tramite della Decal relazioni commerciali con Maxcom Petroli che gestisce depositi costieri e un pontile nel porto di Augusta».

Con la rete di Debono è in contatto anche un altro imprenditore, Luigi Brusciano. In alcune intercettazione che lo riguardano agli di un’indagine ci sono alcune intercettazioni dalle quali emerge come Decal fosse il luogo di stoccaggio per regolarizzare il carburante. Brusciano è stato condannato di recente usura: “accusato” dai pentiti di avere utilizzato soldi provenienti dal clan dei casalesi.

SOLDI EUROPEI

Il 5 febbraio avevamo chiamato e poi scritto alla società Decal per avere una replica. Senza successo però. Decal e San Marco Petroli, altra azienda attiva nel settore, hanno fondato Venice-Lng che, con il contributo economico dell’Unione Europea, punta a costruire un hub per il deposito del gas liquido a Porto Marghera. Nel 2018 è arrivato il via libera e lo stanziamento di quasi venti milioni di euro da parte della commissione europea per la realizzazione del terminale di gas, progetto presentato dall’Autorità portuale del mare Adriatico settentrionale insieme proprio alla Venice Lng.

Quello che non sanno né la commissione né l’autorità portuale è che Decal, motore del progetto, è citata anche in un’altra pesante operazione antimafia che coinvolge Alberto Coppola, l’imprenditore del potente clan Moccia, da cui parte il filo di questa matassa di affari e crimine: trama che incrocia showgirl, cinema, ras del petrolio, manager dello spettacolo e famiglie di camorra.

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