I più accaniti avversari del procuratore Nicola Gratteri, ora alla guida della procura di Napoli, continueranno la loro battaglia per demolire uno dei più grandi processi alla ‘ndrangheta indicando le assoluzioni, 131, rispetto alle condanne, 207. Una valutazione che però è nemica della realtà, perché la chiusura del processo di primo grado del procedimento conosciuto con il nome di “Rinascita Scott” con oltre duecento condanne di capi mafia, gregari, imprenditori, professionisti e complici politici, è destinato a entrare nei libri dell’antimafia giudiziaria. Come altri maxi processi conclusi in questi anni, al pari di quello che ha condannato centinaia di affiliati delle cosche calabro emiliane, di quello che ha svelato come la Lombardia è stata eletta seconda patria della mafia calabrese o anche del maxi più celebre di tutti, quello di Palermo contro Cosa nostra portato avanti dal pool antimafia di cui Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano le punte di diamante.

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Sistema oltre la sentenze

Insomma, si discuterà a lungo di Rinascita Scott. Da un lato i garantisti, o presunti tali, sempre in prima fila a difendere i diritti non degli ultimi della terra, ma dei potenti rimasti imbrigliati nelle inchieste su mafia e politica. Dall’altro i giustizialisti, che vedono nella repressione e nelle retate a tappeto l’unica soluzione per risollevare le sorti dei territori oppressi dai sistemi mafiosi. Al di là di questa eterna lotta tra tifoserie, affette da protagonismo, c’è una certezza: l’inchiesta coordinata dalla procura di Catanzaro, quando ancora Gratteri la guidava, certifica l’esistenza di un blocco di potere unico, impasto di ‘ndrangheta, politica, professioni e imprenditoria. Un organismo unico con più teste, che ha l’obiettivo di spartirsi ciò che resta della Calabria. Seppure sia solo il primo grado, con l’incertezza di un secondo grado dove spesso le sentenza vengono ribaltate, il quadro che emerge è definito: rapporti, amicizie, favori, contiguità tra chi amministra e chi comanda, tra chi cerca voti e chi li vende, potrà anche non essere reato in futuro ma è certamente uno dei mali endemici del paese, che annienta la democrazia e la libertà di scelta e di esercizio del voto sui territori.

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La lettura della sentenza è durata 1 ora e 40 minuti. Tra i condannati non ci sono soltanto Saverio Razionale, Paolino Lo Bianco e Domenico Bonavota. Trent’anni per loro, ritenuti padrini del blocco criminale. Nell’elenco dei colpevoli per ora c’è anche un personaggio che ha fatto molto discutere e per cui sono state portate avanti battaglie giornalistiche con l’intenzione di dimostrare la sua innocenza: si tratta di Giancarlo Pittelli, l’ex ras di Forza Italia in Calabria, molto potente negli anni d’oro del berlusconismo, poi transitato in Fratelli d’Italia. Ma Pittelli è anche un avvocato di altissimo livello, da sempre difensore dei capi ‘ndrangheta più potenti della regione. Undici anni, hanno stabilito i giudici del tribunale di Lamezia Terme. Undici anni al personaggio, che secondo i pm è stato il punto di contatto tra massoneria, clan e politica. Pittelli è stata una risorsa d’oro per l’organizzazione per i suoi contatti con magistrati, forze dell’ordine e partiti. I suoi legali faranno ricorso in appello. Convinti che la sua condanna sia parte di un teorema necessario a salvare il processo di Gratteri: «Sono dinamiche che abbiamo drammaticamente imparato a conoscere in altri clamorosi casi giudiziari, a cominciare da quello di Enzo Tortora». Pittelli come Tortora, l’improbabile paragone già smentito dai fatti.

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