Siamo tutti preoccupati. Preoccupati per la salute nostra e di chi ci sta a cuore. E preoccupati del futuro e del presente della nostra qualità della vita. In cui le relazioni svolgono un ruolo primario. La vita è soprattutto esperienza, e in particolare esperienza di incontri che arricchiscono. E la pandemia limita, minaccia, condiziona proprio questo profondo elemento primario dell’essere umano.

Proprio per questo, e perché il nostro preoccuparci diventi un occuparci, dobbiamo provare ad alzare l’attenzione a quel che sta succedendo e a quel che non sta succedendo nelle aule delle nostre scuole.

Oltre la cortina dei banchi singoli, con o senza rotelle, e dei docenti più o meno presenti, e delle annose ragioni che determinano queste carenze. Della didattica a distanza, delle linee che reggono o non reggono. C’è un tema di fondo che deve prendere il proprio rilevante spazio nel dibattito pubblico: come si vive la scuola e come si vive la scuola anche, e soprattutto, nella pandemia.

Questi nostri giovanissimi concittadini sono imbullonati alle loro sedie, inibiti in ogni scambio e in ogni relazione. Se in aula ci vanno. Se stanno a casa si trovano di fronte alla brutta copia della lezione frontale, senza nemmeno il brivido del bigliettino passato di nascosto all’amico (ma commentano il prof nella chat segreta dei soli compagni).

Il peso di un modello educativo coercitivo e omologante, pensato e organizzato per creare cittadini ordinati e obbedienti, che ancora permea le nostre aule, viene rafforzato dalle necessarie misure di precauzione e di tutela rischiando di segnare una esperienza di disamore verso la scuola (e verso il sapere) e di doverosa sofferenza da cui sarà difficile che i ragazzi si riprendano.

Sforzo creativo

Per questo è urgente, necessario e possibile uno sforzo creativo che associ la tutela della salute fisica a quella della salute emotiva ed educativa. Si può e si deve fare.

E ancora una volta viene in aiuto il ruolo dell’arte e della cultura. Della musica, del teatro, della poesia, delle arti applicate. Facciamole vivere nelle nostre scuole. E facciamo scuola nei luoghi della cultura.

La scuola non coincide con l'edificio scolastico e, tanto più in un tempo di pandemia, usare altri spazi significa ridurre gli assembramenti, differenziare gli accessi e i percorsi casa scuola. Facciamolo nelle piazze, nei giardini, con le sciarpe, e da casa dove purtroppo è necessario.

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Ma cambiamo il contenuto prima ancora del contenitore. Cerchiamo soprattutto di promuovere una pedagogia più aperta e di non rassegnarci, per la giusta e necessaria prudenza, a una scuola che sia solo dovere e non piacere.

La scuola è soprattutto piacere, amore per la conoscenza, passione, attivazione della curiosità. Le nostre città e i nostri paesi sono ricche di luoghi della cultura: teatri, musei, biblioteche. Facciamoli vivere, portiamo lì alcune lezioni, ma non diamoli come semplici edifici, facciamo incontrare alla scuola la bellezza, facciamo esplodere la curiosità stimolata dall’arte, facciamo esplodere un contagio diverso: quello della cultura.

Attiviamo i patti di comunità che sono previsti anche dalle norme pensate in piena pandemia. Attiviamo le dovute eccezioni per i ragazzi con speciali bisogni di apprendimento e anche per tutti coloro che già normalmente rischiavano di essere espulsi e disamorati e che oggi lo rischiano di più. E che sono possibili anche in tempo di sospensione della didattica in presenza.

Facciamo crescere un sentimento corale e appassionato, di comunità, di cittadini, di artisti e di intellettuali che pensino a come dare di più e meglio ai cittadini di domani, e siamo vicini a quei docenti e presidi (che ci sono) che lo stanno facendo. Moltiplicando a catena le esperienze in un contagio questo si davvero positivo. Ne guadagneremo sul piano sanitario e sul piano educativo. Ne guadagnerà il futuro del Paese.

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