C’è una foto che racconta Palermo e il 1982. In primo piano ci sono tre uomini, alle loro spalle una gamba che penzola dal finestrino di un’auto. Giornata fredda di primavera, vento, cielo nero di nuvole. Le raffiche di un fucile mitragliatore Thompson, arma in dotazione alle forze militari americane sino alla fine della guerra in Vietnam, sono così violente da fare sussultare per almeno un minuto un cadavere e scaraventare quella gamba fuori dall’abitacolo. Davanti all’auto sono immobili il consigliere istruttore Rocco Chinnici, il giudice Giovanni Falcone, il capo della sezione investigativa della squadra mobile Ninni Cassarà. L’obiettivo inquadra la scena intorno alle dieci del mattino del 30 aprile, mezz’ora dopo l’uccisione di Pio La Torre, segretario regionale del partito comunista, ex sindacalista, capo polo negli anni dell’occupazione delle terre nel secondo dopoguerra, deputato in carica del parlamento italiano.

Il cadavere è il suo, sua è anche la gamba che penzola in piazza Generale Turba che in realtà è una strettoia in mezzo alla città delle caserme, brigate e reggimenti acquartierati sotto il palazzo della Cuba, uno dei sontuosi sollazzi dell’antica Palermo, luoghi di delizie dei re normanni. I tre uomini lì vicino sono impietriti e silenziosi, solo Cassarà si fa sfuggire un cattivo pensiero: «Siamo cadaveri che camminano». Presagi siciliani.

Il consigliere Chinnici salta in aria un anno e tre mesi dopo, un attentato alla libanese, autobomba. Il commissario di polizia viene massacrato da più di cento proiettili di kalashnicov sotto casa, tre anni e tre mesi dopo. Giovanni Falcone, dieci anni e tre mesi dopo, muore sull'autostrada che scende da Punta Raisi.

Strade di sangue

La strage di Capaci (Foto AGF)

La toponomastica di Palermo è spietata perché scopre Palermo in tutta la sua tragicità. Da quell’auto e da quella gamba che penzola, ad appena qualche passo da piazza Generale Turba, il 1982 s’incrocia implacabile con il 1992. In meno di quattrocento metri è raccolta la Sicilia dei delitti eccellenti e delle stragi.

Via Emanuela Loi che interseca da una parte via Vincenzo Li Muli e via Rocco Di Cillo e dall’altra parte via Agostino Catalano e largo Claudio Traina, più su ci sono largo Antonio Montinaro e largo Eddie Valter Cosina, più giù c’è anche via Vito Schifani. Sono gli otto poliziotti caduti fra Capaci e via Mariano D’Amelio. Parlano i muri e parlano le lapidi nella città dei morti viventi.

In quel 1982 non è cominciato tutto ma è cominciato molto. Sull’auto i cadaveri sono due. C’è Pio La Torre e c’è Rosario Di Salvo, un ragazzo che è emigrato in Germania e che è tornato in Sicilia per stare al fianco del nuovo leader dei comunisti di Palermo, per proteggerlo.

È la sua ombra. Le cronache lo definiscono “l’autista di Pio La Torre”, ma è qualcosa di più, un amico, un compagno che non si stacca mai da lui. Qualche mese prima del 30 aprile Rosario compra due Smith and Wesson, pistole potenti. Non serviranno a nulla. Pio La Torre neanche la trova l’arma quella mattina, Rosario Di Salvo preme il grilletto cinque volte e cinque pallottole finiscono per aria.

Una settimana prima del 30 aprile, accade anche qualcos’altro. Un fantomatico reparto “D” del servizio segreto militare italiano decide che non vale più la pena di sorvegliare il deputato comunista e sospende bruscamente i pedinamenti: «Dalla documentazione in nostro possesso, la sua attività non appare come conseguente a mandato conferito da potenza straniera».

Stabiliscono che La Torre non è una spia del Kgb, come i nostri apparati sospettano dal 1949 al 1976. Non è un agente infiltrato da oltre cortina e finalmente può restare solo, senza la solita “scorta” che gli hanno assegnato per per più di due decenni. È solo quando i macellai di Totò Riina escono con le moto da un cortile della borgata dell’Acquasanta, seguono la berlina scura, scaricano piombo sul siciliano che prima di ogni altro aveva capito cos’era la mafia. Coincidenze temporali che rendono ancora più torbido l’omicidio di Pio La Torre.

Parlava due lingue

Foto Wikipedia

Nel quarantennale della sua morte potremmo azzardare un’ipotesi sul movente del delitto, probabilmente più aderente alla verità storica di quanto si siano avvicinate le inchieste giudiziarie che attribuiscono ogni colpa alla Cupola, solo alla Cupola. Pio La Torre viene ucciso perché parlava due lingue, il siciliano e l’italiano, viene ucciso per la sua straordinaria capacità di tradurre a Roma ciò che sta succedendo in quei mesi a Palermo.

È un pericolo, una grave minaccia per tutti coloro che stanno preparando l’assalto a quel pezzo di stato che ha intuito la rottura di certi equilibri politici criminali del paese. Non sappiamo esattamente se la sua sorte era segnata già dal settembre del 1981 quando è arrivato in Sicilia come segretario regionale del partito comunista, o nel marzo del 1982 quando ha incontrato a Roma il presidente del consiglio Giovanni Spadolini per chiedergli un “intervento urgente” su Palermo e considerare l’emergenza mafiosa “una questione nazionale”.

Sono comunque due date sensibili, segnano una svolta nella guerra che negli anni Ottanta si sta combattendo laggiù. È la strategia della tensione che dalle bombe delle piazze del nord si trasferisce sul fronte sud dell’Italia, terrorismo nero e rosso a piazza Fontana a Milano e a piazza della Loggia a Brescia e agguati di mafia in Sicilia, la regia però è sempre la stessa. Destabilizzare, terrorizzare, ricattare l'Italia che vuole un cambiamento.

«Palermo è una città dove si fa politica con la pistola», dice Pio La Torre quando finalmente rientra nella sua Palermo. Per raggiungerla combatte una dura battaglia dentro il suo partito. Il segretario generale del Pci Enrico Berlinguer è dubbioso, Pio La Torre tormenta Paolo Bufalini che è suo grande amico e che ha grande peso, fa un pressing quotidiano su Giorgio Napolitano che è il responsabile dell'“organizzazione” del Pci.

A Botteghe Oscure, quartiere generale dei comunisti, sono indecisi, vorrebbero mandare a Palermo Gerardo Chiaromonte o Alfredo Reichlin. Ma La Torre non molla. In Sicilia preferirebbero come segretario Luigi Colajanni, un giovane dirigente figlio di Pompeo, mitico comandante delle brigate partigiane in Piemonte, molto inserito dentro la Palermo bene, salottiero, aristocratico.

Pio La Torre è considerato un “migliorista”, una dell’ala destra del partito comunista. Ma, alla fine, la spunta lui, il “vecchio”, l’ex sindacalista nato nelle campagne di Altarello di Baida e che nel 1950 viene arrestato a Bisacquino mentre guida i contadini nei feudi dei baroni amici dei boss. Ha cinquantaquattro anni quando torna in Sicilia.

Il 416 bis

È quadro di partito ossessionato dal potere criminale che soffoca l’isola, uno che fin dai primi mesi del 1973, in parlamento, si batte per far approvare una proposta di legge. È la numero 1581: «Norme di prevenzione e di repressione del fenomeno della mafia e costituzione di una commissione parlamentare permanente di vigilanza e di controllo».

La forma burocratica, in bozza, della legge sull’associazione mafiosa e sulla confisca dei beni che porta il suo nome (e quello dell’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni) e che sarà approvata soltanto centotrenta giorni dopo la sua morte e dieci giorni dopo l’uccisione - il 3 settembre - del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Da quel momento in poi, in Italia, essere mafioso è reato.

Ma non è un omicidio “preventivo” quello di Pio La Torre né un omicidio “dimostrativo”, i boss non vogliono fermarlo perché temono che la sua legge venga approvata in concomitanza con lo suo sbarco in Sicilia o per seminare paura, il delitto è strategico, è dentro un piano più ampio e che va oltre i confini mafiosi. Paradossalmente quella legge sull’associazione mafiosa, che da anni si è smarrita nei labirinti del parlamento, senza i sicari del 30 aprile e gli altri del 3 settembre, non sarebbe mai passata. Lo sanno bene anche i boss di Palermo. Pio La Torre cade dentro un gioco più grande e misterioso.

Ha collegato gli omicidi eccellenti di Palermo - erano già stati uccisi il capo della squadra mobile Boris Giuliano e il procuratore capo Gaetano Costa, il consigliere istruttore Cesare Terranova e il presidente della regione Piersanti Mattarella, il segretario provinciale della Democrazia cristiana Michele Reina e il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, con il grande traffico di stupefacenti con gli Stati Uniti, il falso sequestro del banchiere Michele Sindona con i segreti della loggia P2 di Licio Gelli.

E soprattutto, prima degli altri, fiuta qualcosa di “esterno” alle vicende nazionali. In un’interrogazione alla Camera chiede conto ai ministri dell’Interno e della Difesa, di un’esercitazione fra Palermo e Catania a protezione di un bombardamento atomico «e delle finalità attribuite ai comitati civili e militari, costituiti nell'ambito delle prefetture siciliane».

È sulle tracce di un corpo armato e segreto fin dal 1981, insegue le orme di quella Gladio (l’organizzazione paramiliare delle rete Stay behind promossa dalla Cia per contrastare una possibile invasione in Europa da parte dell’Unione sovietica) la cui esistenza sarebbe stata rivelata dal capo del governo Giulio Andreotti solo nel 1990.

Della Gladio e dei sospetti di Pio la Torre, ce n’è traccia nei diari del giudice Falcone recuperati in parte dopo l’attentato di Capaci. In parte perché qualcuno, qualche ora dopo l’attentato sull’autostrada, fa pulizia nei computer nella sua casa di via Notarbartolo a Palermo e persino a Roma al ministero della Giustizia.

Per ricostruire compiutamente l’azione di La Torre in Sicilia dal settembre 1981 al 30 aprile del 1982 bisogna passare anche da Comiso, punta estrema dell’isola a oriente dove la Nato su pressione degli americani decide di trasformare un ex aeroporto militare nella base missilistica più grande d’Europa.

Sono i “Cruise“, missili da crociera, sono “intelligenti“, in grado di sfuggire ai radar russi, ne vogliono centododici puntati verso est. I mafiosi palermitani hanno già acquistato terre intorno all’ex aeroporto militare, si spostano in massa nel ragusano prevedendo grandi affari.

Pio La Torre, come ai tempi dell’occupazione dei feudi nell’immediato secondo dopoguerra, organizza una battaglia contro l’installazione dei missili. Coinvolge il mondo cattolico siciliano, monaci buddisti, pacifisti tedeschi e norvegesi, canadesi, inglesi. Porta a Comiso centomila manifestanti. È una battaglia tutta dei comunisti siciliani, Botteghe oscure lascia fare ma si dichiara ufficialmente equidistante: né con la Nato né con il Patto di Varsavia.

Destini incrociati

Foto LaPresse

Il 1° maggio del 1982, festa dei lavoratori, Pio La Torre non sceglie di andare a Corleone o a Portella della Ginestra ma vuole fare un comizio a Comiso. Non ci arriverà mai. Il giorno prima è in piazza Generale Turba con Rosario Di Salvo intrappolato nella berlina scura.

«Adesso tocca a noi», confessa a Emanuele Macaluso il giorno di pasquetta, diciotto giorni prima dell’agguato. Dopo pranzo, passeggiano a Roma sul Lungotevere. Lo sa che sta andando incontro alla morte. Lo sa probabilmente da un paio di mesi, da quando - è il 3 marzo - va a palazzo Chigi a parlare con il presidente del Consiglio Spadolini.

Con lui c’è Rita Bartoli, la vedova del procuratore capo di Palermo Gaetano Costa ucciso il 6 agosto del 1980. E c’è anche Ugo Pecchioli, il “responsabile dei problemi dello stato” del Pci, il ministro dell’Interno ombra dei comunisti. A Spadolini l’onorevole Pio La Torre suggerisce di inviare a Palermo un prefetto, anzi un super prefetto. E fa un nome: Carlo Alberto dalla Chiesa.

Il generale, che ha appena lasciato l’Arma da vicecomandante, La Torre l’ha conosciuto a Corleone nel 1948 quando da tenente comandava una squadriglia del “Cfrb”, il Comando forze anti banditismo e quando Luciano Liggio fa uccidere il sindacalista Placido Rizzotto. Poi lo rivede, da colonnello e comandante della Legione di Palermo, quando Dalla Chiesa nel 1971 testimonia in Commissione Antimafia.

Giovanni Spadolini accetta il consiglio di La Torre e nomina il generale prefetto di Palermo il 2 aprile. Il suo sbarco a Palermo è previsto l’8 di maggio, ma arriverà il pomeriggio del 30 aprile, appena dopo l’agguato in piazza Generale Turba. Poi, il 3 settembre, toccherà a lui.

Uno dopo l’altro, tutti coloro che capiscono e provano a fermare un progetto eversivo che sta partendo dalla Sicilia, vengono eliminati. È il prologo di ciò che accadrà dieci anni dopo, nel 1992. La strage Falcone e la strage Borsellino: l’atto finale.

Da una parte una sorta di “resistenza” portata avanti individualmente o comunque senza un piano organico e condiviso dai vertici dello stato italiano, dall’altra una convergenza di interessi fra classi pericolose e apparati con un obiettivo molto chiaro: frenare qualsiasi forma di riforma politica, che si chiami compromesso storico in Italia o “governo delle larghe intese” in Sicilia, il preludio a maggioranze che comprendano anche il Pci.

In quell’inizio degli anni Ottanta i morti di Palermo si confondono con i morti della stazione di Bologna, neri, esplosioni, deviazioni dei reparti di intelligence, indagini insabbiate, mandanti implacabilmente sempre ignoti.

Omissioni

Il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (Foto LaPresse)

Chi ha voluto la morte di Pio La Torre? Nei cassetti del mio archivio ho trovato un primo rapporto della procura della repubblica di Palermo, ufficio giudiziario al tempo famoso per i suoi equilibrismi e per la sua vicinanza al potere siciliano più cupo.

Chi ha voluto la morte di Pio La Torre? «È vittima per avere recato o potuto recare gravi pregiudizi ad una pluralità disomogenea di centri d’imputazione di interessi illeciti». È scritto il niente, lo zero assoluto, il buio totale, la vergogna messa nero su bianco in un atto giudiziario.

Anche di fronte al cadavere dell’onorevole che da trent’anni si batteva contro la mafia e al cadavere del suo amico Rosario Di Salvo certi magistrati si trasformano in acrobati della parola, pluralità disomogenea, centri d’imputazione, avere recato o potuto recare, involuzioni linguistiche e paure, cautele che sfiorano la complicità.

C’è anche chi s’inventa persino una “pista interna”, interna al Partito comunista. La Torre fatto fuori a casa sua, dai suoi compagni, da quelli che lui aveva attaccato nel piccolo paese di Villabate perché avevano rapporti d’affari con alcuni boss legati a Bernardo Provenzano.

La vedova, Giuseppina La Torre, carattere forte, mente lucida, risponde alla procura di Palermo: «Pio non può essere stato ammazzato da un qualunque ladruncolo di cooperativa». Ma il dubbio viene insinuato, ripreso, rilanciato, cristallizzato nell’indagine.

È omicidio di mafia? È omicidio di politica italiana? È omicidio di missili e quindi di matrice americana, leggi Cia, Central Intelligence Agency? Solo il giudice istruttore Giovanni Falcone, in quel 1982, dà un’interpretazione che indica un diverso sentiero: «Omicidi come quello di Pio La Torre sono fondamentalmente di natura mafiosa, ma al contempo sono delitti che trascendono le finalità tipiche di un’organizzazione criminale, anche se del calibro di Cosa Nostra. Qui si parla di una situazione in cui si è realizzata una singolare convergenza di interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica, fatti che non possono non presupporre un retroterra di segreti e inquietanti collegamenti».

Dichiarerà la vedova La Torre, in fase istruttoria, sulla Palermo dei delitti eccellenti: «Mio marito era convinto che tutti questi omicidi avessero una matrice politica, nel senso che erano stati decisi e attuati dalla mafia siculo americana collegata con il potere economico finanziario siciliano».

Poco prima del tramonto del 30 aprile del 1982, fra le palme di piazza Castelnuovo che è difronte al maestoso teatro Politeama, stanno montando il palco dove il giorno dopo saliranno il presidente della Repubblica Sandro Pertini, il segretario generale del Pci Enrico Berlinguer, il capo del governo Giovanni Spadolini e tutte le più alte cariche dello stato. Gli operai assemblano i tubi, un funzionario del Comune di Palermo sovrintende alle operazioni, ci sono poliziotti e carabinieri armati ai quattro angoli della piazza.

A una quarantina di chilometri di distanza, a Punta Raisi, proprio in quel momento sta atterrando un aereo da Roma. A bordo c’è il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, da qualche settimana è un carabiniere in congedo, ultimo incarico vicecomandante dell’Arma, come lo era stato suo padre Romano nel 1955. Sull’areo stende il suo testamento, una lettera ai suoi figli, Nando, Rita e Simona: «Quanto vi scrivo l’ho fatto a settemila, ottomila metri d’altezza, in cielo, mentre l’aereo mi porta veloce a Palermo...».

A Punta Raisi c’è un’auto blù della prefettura ad aspettare il generale, ma Carlo Alberto dalla Chiesa la evita accuratamente e prende il primo taxi della fila. È in borghese, vestito grigio chiaro, disarmato. Al tassista dice: «Mi porti a piazza Castelnuovo». Mezz’ora dopo è lì, sotto le palme, a curiosare fra gli operai che stringono bulloni e tirano su il palco per la commemorazione pubblica di Pio La Torre del giorno dopo.

È quasi sera a Palermo. E noi, un piccolo drappello di giovanissimi cronisti che si sta aggirando per le vie del centro per annusare l’odore della Sicilia dopo la mattinata di sangue, riconosciamo Carlo Alberto dalla Chiesa in fondo alla piazza. Con la passione e l’ingenuità dei ragazzi ci catapultiamo addosso al generale dei carabinieri più famoso d’Italia per fargli la sola domanda che potevamo fargli: perché hanno ucciso Pio La Torre? Carlo Alberto dalla Chiesa, cinquantottesimo prefetto di Palermo dall’Unità nazionale, risponde: «Per tutta una vita».

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