La storia si ripete. Quando la destra nostalgica sente odore di potere, piccolo o grande che sia, dismette la camicia nera e si mette in ghingheri: si imbelletta, o si incipria che dir si voglia.

La storia è lunga. Possiamo farla partire dagli anni Cinquanta, quando il segretario del Movimento sociale italiano, il pacioso Arturo Michelini, fondatore del partito nel dicembre 1946, si offrì alla Democrazia cristiana per riportare il paese su una linea di fermezza anticomunista, avviando la politica dell’ “inserimento” nel sistema.

L’operazione, favorita da trionfi elettorali al sud insieme ai i monarchici, arrivò ad un passo dal compiersi quando appoggiò, con i suoi voti determinanti, il governo monocolore democristiano di Fernando Tambroni nel 1960. Il progetto naufragò solo per eccesso di baldanza perché il Msi, in quei giorni, annunciò che il suo congresso a Genova sarebbe stato presieduto da Carlo Emanuele Basile, prefetto della Repubblica sociale italiana (il governo mussoliniano alleato dei nazisti nel 1943-1945) nel capoluogo ligure. L’affronto fu tale che scoppiò una rivolta, poi dilagata in tutt’Italia.

Il doppiopetto di Giorgio

Da quel putiferio ne conseguì una ferrea emarginazione del Msi, tanto che i più impazienti abbandonarono il partito e si misero a progettare, e intraprendere, azioni eclatanti, dagli attentati ai colpi di stato (peccato che “er Cecato”, al secolo il camerata Massimo Carminati, inquisito anche nell’inchiesta Mafia Capitale, rimanga così reticente sul tema….).

Ma quando un’altra ondata nera attraversò l’Italia, nei primi anni Settanta, e il Msi contribuì alla elezione del presidente Giovanni Leone, ecco che il combattivo nuovo segretario missino, Giorgio Almirante, indossò il doppiopetto e lanciò l’operazione Destra Nazionale. Imbellettò, anzi, incipriò il suo partito con un ritocco al nome e al simbolo, reclutò alcune persone di diversa origine come l’ammiraglio Birindelli ex comandante Nato nel Mediterraneo (nulla di nuovo, come si vede) e dichiarò, alla tribuna elettorale del 1972, di “accettare la resistenza come valore”. Quelle belle parole non ebbero seguito e il partito scese la china della radicalizzazione, punteggiata da pericolose connivenze con l’ambiente della destra eversiva, soprattutto nelle sue frange giovanili.

Il lungo appannamento dell’Msi negli anni successivi venne rischiarato solo quando il sistema dei partiti crollò e giunse Silvio Berlusconi a dichiarare, nella sorpresa generale, che nella competizione per la poltrona di sindaco a Roma (dicembre 1993), a fronte a quel pericoloso sovversivo di Francesco Rutelli avrebbe votato per Gianfranco Fini, segretario del Msi.

Al reclutamento di alleati da parte del Cavaliere per la disfida elettorale del 1994 Fini rispose immediatamente e fece, abilmente, la sua parte: cambiò nome al partito, reclutò alcuni nomi estranei all’ambiente, e recitò qualche bella frase per farsi accettare dai salotti buoni.

Ancora una volta, il profumo del potere portava buoni consigli. In questo caso però la storia prese una direzione diversa. Da un lato, il Msi, diventato Alleanza nazionale, riuscì finalmente ad andare al governo, e dall’altro Fini si convinse davvero di quello che proclamava con una chiarezza e una convinzione crescente.

E, guarda caso, alla fine, Fini è stato rinnegato ed emarginato dai suoi stessi camerati d’un tempo. Che avevano accondisceso ai suoi propositi pur di entrare nel Palazzo ma non se la sentivano di seguirlo lungo quella strada. La democrazia liberale, persino nella versione conservatrice, rimaneva qualcosa di lontano, se non ostico, per la quasi totalità di loro.

Abbasso il 25 aprile

Ora tocca a Giorgia Meloni, in cima ai sondaggi, enunciare buoni propositi trilingue. Le parolette che ha pronunciato certamente soddisfano chi non aspetta altro che intronarla a Palazzo Chigi, correndo ancora una volta in soccorso del vincitore, come da tradizione italica. Eppure qualcosa non torna. Perché chi non celebra il 25 aprile, in quanto ha altro da fare come ha dichiarato quest’anno, non dimostra alcuna convinzione nei valori fondanti di della Repubblica; e anche il 2 giugno, festa della Repubblica, non le va a genio (pure nostalgica dei Savoia?).

E chi non espelle seduta stante i suoi dirigenti che indugiano in saluti romani e lazzi antisemiti come denunciato dall’inchiesta di Fanpage e si rifugia nella ridicola risposta «voglio veder tutto il filmato», o chi fa finta di «non sapere la matrice» degli assalitori fascisti della sede nazionale della Cgil a Roma, dimostra di non voler tagliare il cordone ombelicale con l’estremismo di destra. Semplicemente, non è credibile nei suoi recenti proposti. E quindi, le sue parole sono un imbellettamento che nasconde una realtà diversa: un incipriarsi per nascondere il nero.

 

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