Se Giuseppe Conte non riuscirà a ricucire il rapporto con Beppe Grillo e, come molti ritengono possibile, lascerà il Movimento 5 stelle per fondare un suo partito, entrerà a far parte di una tradizione illustre che nel nostro paese include figure come Silvio Berlusconi, Mario Monti e, più di recente, Matteo Renzi.

Quello che accomuna questi personaggi è che tutti e tre hanno provato a trasformare la loro popolarità in consenso elettorale fondando dei “partiti personali”: scatole più o meno vuote di ideologie, visioni e struttura, ma piene fino all’orlo dell’ego dei loro carismatici fondatori.

«Conte si inserirebbe bene in questo quadro», dice Daniele Albertazzi, professore di scienze politiche, che da settembre sarà all’università del Surrey.

«Se Conte dovesse fare un suo partito – prosegue – ci ritroveremmo ancora una volta in una situazione per cui una persona che è divenuta un caso politico senza radicamento nel territorio, senza aver creato un’organizzazione partitica e, in questo caso, senza neanche un’ideologia e dei valori chiari di riferimento, cerca di “spendere” la sua notorietà per mettersi in gioco».

Una breve storia

Di solito la fase dei partiti personali e dei leader carismatici in Italia si fa coincidere con la “discesa in campo” dell’imprenditore Silvio Berlusconi nel 1994. In pochi ricordano che qualcosa di simile era già avvenuto pochi mesi prima, quando nel 1993 l’enfant prodige della Democrazia cristiana Mario Segni, uno dei politici più popolari del momento, aveva abbandonato il suo partito per fondare il Patto Segni.

Nata sotto gli auspici di queste due figure carismatiche, la Seconda repubblica è stata caratterizzata da una forte dimensione personale che ha influenzato tutto lo spettro politico.

Il centrosinistra è stato per anni sinonimo di Romano Prodi, mentre il partito più lontano da Berlusconi, l’Italia dei Valori del magistrato Antonio Di Pietro, era un partito personale non meno di Forza Italia.

Persino Mario Monti, sobrio presidente del Consiglio tecnico, è stato tentato da una discesa in campo essenzialmente personale.

Negli ultimi anni, complice una crisi apparentemente irreversibile del partito di Berlusconi e del Pd, i partiti personali si sono moltiplicati.

Hanno provato a seguire questa strada l’ex presidente della Camera Gianfranco Fini, con Futuro e libertà, l’ex ministro della Giustizia Angelino Alfano, con il Nuovo centro destra, Matteo Renzi, con Italia viva, e infine Carlo Calenda, con Azione.

Un fenomeno comune

In un momento storico di crisi e incertezza, in cui tutto ciò che viene percepito come politicamente nuovo è considerato migliore di ciò che c’era prima (che ha ormai uno stigma, spesso meritato, di “fallimentare”) è difficile per una figura dotata di popolarità resistere alla tentazione di mettersi in gioco personalmente. Non solo in Italia.

Senza arrivare agli Stati Uniti di Donald Trump, si può guardare alla Francia, dove Emmanuel Macron, ministro socialista in fuga dal suo partito, ha fondato con successo il suo movimento ultra personale. In Europa centrale, le sigle dei partiti personali e dei leader carismatici si alternano così velocemente che è difficile stare loro dietro.

Personalizzazione, poi, fa spesso rima con frammentazione: il fatto che i leader carismatici abbiano un iniziale successo, fa sì che in molti provino ad imitarli. I Paesi Bassi, con il loro sistema fortemente proporzionale, sono un caso di scuola: alle ultime elezioni otto partiti hanno raccolto più del 5 per cento alle elezioni e solo uno ha ottenuto più del 20 per cento.

In altre parole, l’Italia non è un eccezione. «Casomai può essere stata un’avanguardia», dice Albertazzi.

La particolarità italiana

Se la pianta della politica personale non cresce solo in Italia, di certo nel nostro paese il suo seme è stato piantato prima ed è cresciuto in maniera più rigogliosa che altrove.

Per gli studiosi più conservatori, questa maggiore tendenza italiana al leaderismo e alla frammentazione sarebbe legata alla nostra storia. L’unificazione mai completata, i campanilismi locali e la partitocrazia della Prima repubblica, sostengono, sono le forze che hanno impedito la nascita di una democrazia dell’alternanza sul modello anglosassone e che hanno condotto alla continua nascita di progetti personali e populisti di singoli leader.

Per gli studiosi di tendenza più progressista, invece, il fenomeno ha origini più recenti. La distruzione dei grandi partiti tradizionali negli anni Novanta e la crisi economica dei Duemila sono state più dure che nel resto d’Europa e questo avrebbe eroso più che altrove le risorse economiche e la fiducia dei partiti tradizionali che si sono trovati così più esposti agli attacchi dall’esterno o alle scissioni dall’interno dei leader carismatici.

Prospettive future

Con la vistosa eccezione di Silvio Berlusconi, i partiti personali in Italia sono di solito vittime di quegli stessi cicli politici velocissimi che li portano improvvisamente sulla cresta dell’onda.

Senza radicamento territoriale, senza un’identificazione con uno specifico gruppo di interessi (caratteristiche che, ad esempio, hanno permesso alla Lega di sopravvivere), i partiti personali scompaiono rapidamente come le fortune dei loro leader.

Conte oggi sembra imitare Renzi e Monti in più di un modo. Anche lui si presenta come un moderato e si tiene lontano dal radicalismo che sfoggiavano fino a qualche anno fa Matteo Salvini e lo stesso Grillo.

Questo atteggiamento rischia di non portargli bene. «La fama di Conte è transitoria – dice Albertazzi – Sono mesi che è sparito e poi al “centro” non c’è spazio politico alcuno. Si faranno la lotta per un paio d’ossi».

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