Giorgia Meloni vuole «cambiare la narrazione» – per usare un’espressione cara al suo governo – e raccontare l’estrema destra come pragmatica, moderata, digeribile.

La presa della «narrazione» è funzionale alla presa del potere. L’operazione è lampante: l’assalto alla Rai, gli attacchi alla libera informazione, i fastidi per le conferenze stampa. Ciò che non era scontato era la sindrome di Stoccolma.

«Il fatto è che, anche tra i principali media italiani, c’è la tendenza a raccontare Giorgia Meloni proprio nel modo in cui lei vuole essere raccontata». Si arriva persino a «riprodurre prodotti preconfezionati»: li chiama così, David Broder, colloquiando con Domani; e parla con cognizione di causa, visto che su Giorgia Meloni ha scritto un libro – Mussolini's Grandchildren – oltre che un urticante editoriale sul New York Times (What’s Happening in Italy Is Scary, and It’s Spreading; Quel che accade in Italia è spaventoso, e dilaga).

Nelle stesse ore in cui Joe Biden si prestava alle foto e alle strette di mano con la premier italiana, Broder metteva in guardia dalla prima pagina: attenzione a non normalizzare l’estrema destra. Attenzione perché «se si racconta che Giorgia Meloni si è convertita da populista a pragmatica si tralascia quel che sta davvero facendo in Italia».

Peccato che proprio in Italia si racconti quella versione della storia. Daniel Verdú, che è il corrispondente di El País in Italia, non se ne capacita. Nei giorni delle elezioni spagnole lo ha anche denunciato pubblicamente: «Certo che è curioso, il Corriere chiama ultradestra Vox, ma non Meloni. L’ultradestra è sempre quella degli altri!». E a voce spiega che per lui «far finta che Meloni non condivida un’agenda con Vox è assurdo, definirla centrodestra per me è ridicolo».

Se è vero che in Europa il centrodestra dei popolari – con il grande “normalizzatore” Manfred Weber – ha sfondato il cordone sanitario verso l’estrema destra, non era scontato né inevitabile che oltre alla politica anche una fetta autorevole del mondo dell’informazione assecondasse l’operazione. Il cordone si è rotto anche sui giornali, invece, e gli osservatori esterni se ne accorgono.

Mentre Verdú di El País evidenzia le scelte di campo semantiche – l’estrema destra che in Italia viene presentata come moderata, conservatrice o «centrista» – Jacopo Barigazzi di Politico Europe lancia l’allerta sulla mancanza di dialogo.

I monologhi di Giorgia

Il 12 agosto Barigazzi da Bruxelles è arrivato a rivolgersi direttamente – su Twitter – al Corriere: «Caro Corriere, potresti per favore smetterla di pubblicare lettere di Meloni, che molto raramente accetta interviste? Lasciare che il potere tratti i giornali come una casella di posta non aiuta la democrazia (e il buon giornalismo)».

Che le interviste siano «rare» lo conferma ad esempio Verdú, che attende invano. Che Meloni spedisca lettere, lo si vede anche in frangenti delicati: è con un monologo che ha gestito questioni per lei complesse come l’anniversario della liberazione dal nazifascismo.

Broder osserva che «in generale Giorgia Meloni cerca di rilasciare prodotti preconfezionati; lo ha fatto in campagna elettorale e non solo; quando ha parlato ai media internazionali per smentire i rapporti tra il suo partito e il neofascismo, ha rilasciato il video senza possibilità di fare domande; quando è andata in Tunisia, ancora niente domande. Evidentemente fa parte della strategia di comunicazione di Fratelli».

Se sulla stampa finiscono le lettere-monologo, sulla tv pubblica dell’èra Meloni capita che vada in onda mezz’ora di video preconfezionato. La messa in onda – senza intermediazione giornalistica – di 27 minuti di “Appunti di Giorgia” (il monologo della premier) ha scatenato la protesta del comitato di redazione di RaiNews24.

«Mi sono rivolto al Corriere che è considerato il giornale più autorevole in Italia quando ho visto che l’abbondanza di lettere non corrisponde alle possibilità di dialogo», ricostruisce Barigazzi. Un paio di giorni dopo il suo appello, è comparsa una breve intervista “a media unificati” su Corriere, Repubblica e Stampa. «Rispetto al grande interesse che c’è in Europa nei confronti di Meloni, colpisce che la premier abbia un atteggiamento spesso riluttante a sedersi a un tavolo per confrontarsi a tutto campo. Abituarsi alle lettere vuol dire abituarsi ai monologhi», dice il reporter di Politico Europe. Che nota: «Meloni non è alle prime armi, è una politica navigata: preferire i monologhi stride...».

Secondo Broder, dietro questa attitudine c’è una strategia precisa: «Serve a farla apparire seria. La premier si atteggia da statista e non si getta nel campo del confronto, del dibattito; sono gli altri – magari i ministri – a farlo per lei».

Il corrispondente di El País, Verdú, constata «il rapporto problematico della premier coi giornalisti: è un segno chiarissimo di autoritarismo». Ma anche se il resto del mondo chiama tutto questo «far right, destra estrema», non è detto che lo si legga in Italia. Il controllo di Meloni sul messaggio si combina con l’operazione di normalizzazione del postfascismo.

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