Gli italiani non sono un popolo guerriero né guerrafondaio. La nostra politica estera nel Dopoguerra, per cultura politica, circostanze internazionali e per prescrizione costituzionale, si è caratterizzata più per accordi diplomatici e commerciali e operazioni di intelligence che per impegno militare.

Ogni volta che c’è una guerra che lambisce l’Italia, i sondaggi registrano quasi sempre una maggioranza di italiani contrari a interventi militari diretti o indiretti.

Proprio per questi motivi, il supporto all’Ucraina è stata una decisione difficile da digerire per gran parte della nostra politica e non soltanto per i legami saldi tra la classe dirigente italiana e quella russa esistenti fino a pochi anni fa.

L’Italia ha aderito senza riserve alla posizione atlantica di condanna e contrasto dell’invasione voluta da Vladimir Putin, ma il suo contributo in termini di risorse belliche è stato in proporzione meno ingente di altre nazioni come Germania, Francia, Polonia e Regno Unito.

Questo primo fronte orientale, dunque, sarà difficile da alimentare con la stessa intensità nel lungo periodo proprio per le resistenze politiche interne, anche se la difesa dell’Ucraina è essenziale alla sicurezza dell’Unione europea.

Il secondo fronte

Poche settimane fa per l’Italia si è aperto un secondo fronte, per molti aspetti più cruciale per noi di quello orientale, che è quello del Mar Rosso.

L’Italia è nazione di produttori trasformatori e commercianti che devono approvvigionarsi, in un paese povero di materie prime, soprattutto in Asia e Africa. Gran parte di questo materiale, fondamentale per la competitività della nostra industria, passa per il canale di Suez.

Aderire all’intervento americano contro gli Houti, che minacciano la rotta nel Mar Rosso, era dunque una questione di vita o di morte per il tessuto economico italiano. È vero che storicamente, come scrive Francesco Maselli in un bel recente libro L’Italia ha paura del mare (NR edizioni 2023), il paese è poco propenso a sfruttare i suoi porti e la sua potenza militare ma in questo caso non ci sono alternative, a meno che non si voglia una grave perdita di competitività dell’economia italiana.

Il governo ha preso una scelta obbligata e grazie al prestigio della nostra marina militare è stato riconosciuto all’Italia il comando tattico della missione. A ogni modo ciò significa impegnare lo stato in nuove azioni e spese.

Il piano Mattei

Il terzo fronte, invece, è stato aperto dal governo Meloni con il Piano Mattei verso un gran numero di stati africani. Sono stati definitivi obiettivi e ambiti, ma sono state stanziate poche risorse per l’ambizione declamata dall’esecutivo e per ottenere risultati saranno necessari investimenti ingenti e continui.

In questo scenario, gli impegni dello stato crescono sempre di più sul fronte estero. Per molti aspetti è inevitabile, dato il crescente clima di tensioni internazionali e la necessità di difendere gli interessi del paese, ma bisogna anche chiedersi fino a che punto questo approccio sia sostenibile sul piano politico per un paese anziano, di cultura pacifista, che spende poco in difesa, che ha una economia di trasformazione e uno stato con una sempre precaria legittimazione popolare.

Il ministro Guido Crosetto ha lanciato l’ipotesi della costituzione di un gruppo di riservisti pronti a combattere in caso di guerra. È una idea previdente viste le minacce che incombono, ma non è detto che trovi grande consenso politico. Insomma l’Italia sta entrando in una fase storica in cui il settore militare e della difesa, in tutte le sue forme, richiede risorse sempre maggiori.

Per un paese anziano, molto indebitato, dipendente dal commercio estero, non è semplice proiettarsi in questa nuova dimensione. Serve una politica che guidi con mano salda e soprattutto sappia legittimare le scelte strategiche che decide di assumere.

Ciò sempre che i fronti aperti non siano troppi per le capacità italiane e posto che l’economia non dovrà scontare a breve nuove regole e misure protezionistiche.

Non va dimenticato che Donald Trump ha imposto dazi a certi settori dell’industria europea e che, in termini più generali, gli Stati Uniti stanno chiedendo, per i propri limiti politici interni, di fare di più sul piano della sicurezza per quanto concerne la Nato.

Investire in questo campo significa togliere risorse da altri settori in virtù di un bene futuro, appunto la sicurezza e la stabilità del mondo intorno a noi. Perseguire questa politica è tuttavia difficile senza la diffusione di una cultura della sicurezza ad ampio spettro. Il governo italiano sembra pronto almeno a parole a fare la sua parte, ma l’opinione pubblica lo è?

© Riproduzione riservata