Le compagnie cinesi sono pronte a rifornire il medio oriente di sofisticati armamenti, a partire dai sempre più richiesti droni. Gli ultimi ritrovati della tecnologia bellica made in China sono stati messi in mostra durante la seconda edizione del World Defense Show che si è svolta a Riad dal 4 all’8 febbraio, alla quale hanno partecipato 36 contractor cinesi.

Gli aerei senza pilota (Uav), che hanno occupato un intero padiglione della fiera nella capitale saudita, sono i protagonisti del conflitto tra l’Iran e i suoi proxy da un lato e dall’altro, Stati Uniti e Israele, che sta incendiando la regione.

Il 3 gennaio 2020, Donald Trump ha spedito un “Predator” a uccidere, nei pressi dell’aeroporto di Baghdad, il generale Qasem Soleimani, il grande burattinaio delle milizie filo iraniane in medio oriente.

Nelle prime fasi dell’attacco del 7 ottobre, Hamas ha utilizzato droni civili modificati per attaccare postazioni militari israeliane. Anche gli houthi hanno impiegato i droni, per colpire i mercantili occidentali nel Mar Rosso.

Il 28 gennaio scorso ancora un aereo senza pilota, questa volta un drone suicida “Shahed” di Kataib Hezbollah, ha colto di sorpresa i soldati americani della base “Tower 22” in Giordania, uccidendone tre e ferendone decine.

A Riad Pechino ha presentato una trentina di modelli, tra cui il “Wing Loong 2”, destinato soprattutto ai mercati esteri, disegnato e prodotto da Chengdu Aircraft Industry Group, una sussidiaria della Aviation Industry Corporation of China, colosso di stato (sotto sanzioni Usa) con 400mila dipendenti e decine di centri di ricerca.

Si tratta di un apparecchio multi-funzione, adatto a operazioni di intelligence, sorveglianza, riconoscimento e combattimento. In grado di trasportare fino a 12 bombe o missili a guida laser per un peso totale di 480 chilogrammi.

Il 3 ottobre scorso è stato avvistato per la prima volta intorno a Taiwan. Ma è stato venduto soprattutto ad Arabia Saudita, Egitto, Nigeria, Marocco ed Emirati Arabi. Riad ha già acquistato da Pechino oltre 300 droni, utilizzati anche per colpire le milizie houthi nello Yemen.

Economici e “per tutti”

Gli Uav costituiscono un settore importante della nuova manifattura cinese, il cui sviluppo è sostenuto dalle politiche governative. Nei negozi di Dji in Cina è possibile ammirare decine di modelli di droni civili, sempre più sofisticati.

Anche la compagnia di Shenzhen è sotto sanzioni Usa per presunti legami con l’Esercito popolare di liberazione, ma ciò non le ha impedito di conquistare il 70 per cento del mercato globale.

Quello dei droni militari è un mercato in forte espansione (da 12,5 miliardi di dollari nel 2022 a 35,6 miliardi nel 2030) per circa il 50 per cento in mano a produttori statunitensi.

La Cina ha circa un quarto del mercato, avendo occupato lo spazio aperto dalle restrizioni all’export dagli Stati Uniti verso una serie di stati.

Così i paesi del medio oriente, del nord Africa e dell’Asia meridionale sono diventati tra i maggiori acquirenti di droni cinesi come Wing-Loong 1 e 2 e CH-3 e CH-4, più economici di quelli statunitensi e venduti senza condizionalità politiche.

Secondo un database sui trasferimenti di armi dello Stockholm International Peace Research Institute, la Cina ha esportato più di 280 Uav da combattimento negli ultimi dieci anni.

Diverse compagnie private cinesi di droni hanno fatto la loro prima apparizione allo show saudita. Ad esempio, la pechinese Beijing Hoverwing Technology ha mostrato il suo più grande drone militare multiuso, lo “HW-150V”, con capacità di sorveglianza, mappatura e attacchi aerei.

Per gli Al Saud, al governo ininterrottamente dal 1926, gli Stati Uniti – con cui, nel 1951, sottoscrissero il Mutual Defense Assistance Agreement e da cui importano il 70 per cento dei loro armamenti – sono diventati partner meno affidabili che in passato, dopo che le amministrazioni Obama e Biden hanno congelato la vendita di missili di precisione che Riad ha utilizzato per colpire lo Yemen.

Per questo – secondo le informazioni di Pechino – ora l’Arabia Saudita punta a “localizzare” nella penisola il 50 per cento dell’industria bellica entro il 2030, e le compagnie cinesi sono pronte a sostenerne le ambizioni.

Armare i sauditi

Fu Qianshao, un esperto di questioni militari, ha spiegato al Global Times che «l’Arabia Saudita ha ancora bisogno di alcuni anni per costruire una base e una catena industriale relativamente complete per poter produrre in modo indipendente attrezzature per l’esercito, la marina e l’aeronautica, ma la Cina può aiutarla ad aumentare il ritmo, poiché possiede la catena industriale più completa».

Lo schema è lo stesso grazie al quale la Cina ha imparato a fabbricare i suoi smartphone divenuti best seller mondiali: all’inizio le componenti made in China verrebbero spedite in Arabia Saudita, per l’assemblaggio degli armamenti, mentre nella penisola dovrebbe iniziare a svilupparsi un’industria bellica locale.

Secondo altri analisti di difesa citati dal giornale governativo, a tal fine la Cina è pronta a mettere a disposizione dei sauditi le tecnologie più avanzate, intere linee di assemblaggio, e servizi post vendita.

La vecchia alleanza “sicurezza in cambio di petrolio” tra Stati Uniti e Arabia Saudita non è più granitica da quando Mohammed bin Salman ha rivendicato l’opportunità per la sua petromonarchia di intrattenere strette relazioni anche con la Cina e la Russia. Rapporti che con Pechino sono soprattutto economici (petrolio per tecnologia e infrastrutture lungo la nuova via della Seta), ma anche di sicurezza.

Con l’Arabia Saudita che potrebbe avere un ruolo importante nella Gaza del Dopoguerra, pochi giorni dopo il massacro del 7 ottobre la marina saudita e quella cinese hanno svolto nel Guangdong la loro seconda esercitazione navale anti-terrorismo congiunta, “Spada blu 2023”.

L’Arabia Saudita – che attualmente è “membro di dialogo” – punta a entrare a pieno titolo della Shanghai Cooperation Organization (Sco), status che rafforzerebbe ulteriormente la collaborazione militare con la Cina.

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