Le parole con cui l’ex ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli è stata la prima a iscriversi ufficialmente alla pazza corsa alla successione di Enrico Letta illuminano il baratro in cui rischia di sprofondare il Partito democratico: «Ho 49 anni, un curriculum fitto e la voglia di spendermi in qualcosa di importante».

Sembra una candidatura per la prossima edizione del Grande Fratello vip, e infatti di contenuti politici nemmeno a parlarne: «Non vuole ancora anticipare le linee guida della linea (sic) con cui chiederà il consenso degli iscritti», annota sconsolato l’intervistatore di Repubblica che non è riuscito a scucirle una sola parola in merito. Il prossimo congresso del Pd «non può diventare una scelta di figurine o un concorso di bellezza», avverte la candidata che quindi propone una inedita formula di congresso, una competizione al buio, giocata non sui nomi ma su proposte politiche sconosciute, tenute segrete fino a quando, al momento opportuno, i media saranno autorizzati a spoilerarle.

Nell’attesa solo un flebile indizio: «Mi aiuteranno figure che stanno sul territorio, abituate a parlare con la gente», come se i dirigenti nazionali del partito parlassero solo tra loro e delegassero il pattugliamento dei territori e delle strane genti che li abitano, e che si esprimono con suoni gutturali inaccessibili ai leader, ad appositi esploratori, figure simili al ranger Smith che nel parco di Jellystone parlava con Yoghi e Bubu a nome degli Stati Uniti d’America.

Per adesso il militante del Pd deve farsi bastare questo grido di battaglia: «Voglio puntare sui militanti, troppo spesso dimenticati, quando non umiliati, e sulla definizione della nostra identità. Chi siamo, questa deve essere la domanda chiave e dovrà essere un congresso diverso dagli altri».

La corrida delle ambizioni

Da sinistra: Dario Franceschini, Andrea Orlando e l'ex segretario Nicola Zingaretti (LaPresse)

Tutto questo può suscitare ilarità o angoscia, ma certamente illustra in modo compiuto il Big Bang in corso all’interno del Pd. La sconfitta alle elezioni fa esplodere tutto. Se fino a domenica scorsa il Pd era paralizzato dalla contesa perenne tra i capicorrente a Roma e tra i capibastone nelle realtà locali, la pur prevedibile e prevista scoppola elettorale ha fatto scattare la definitiva balcanizzazione del partito. Con l’aggravante che, alla guerra tra i capi delle correnti (Dario Franceschini, Andrea Orlando, Lorenzo Guerini, per tacere dei comprimari) che ha portato alla deprecabile situazione attuale, oggi si sovrappone e forse si sostituisce la caotica corrida delle ambizioni personali.

Colpisce il fatto che la discesa in campo di De Micheli, lettiana di ferro (dopo essere stata anche, mentre il capo stava a Parigi, renziana prima e zingarettiana poi), sia stata istantaneamente disconosciuta dalla portavoce di Letta Monica Nardi.

E dunque, chi la spinge? Chi la vuole? Quali anime del partito rappresenta la manager delle cooperative (bianche) di Piacenza? In altre parole, quali settori del partito guardano con fiducia e speranza alla sua voglia matta di spendersi in qualcosa di importante?

Effetti collaterali

Quello di De Micheli non è un caso isolato, è anzi pienamente coerente con le prescrizioni del manuale di sopravvivenza di un ceto politico in rotta. Questo è il momento in cui, come suol dirsi, uno ci prova. Candidarsi vuol dire comunque lucrare passaggi televisivi e visibilità, e anche la sconfitta porta con sé dei benefici collaterali, un riconoscimento, un pacchetto di posti negli organismi dirigenti, un incarico gratificante per il candidato battuto.

Il sindaco di Firenze Dario Nardella, che fu ai bei tempi più renziano di Renzi, si candida ma anche no: «Io non mi tiro indietro se si tratta di costruire un gruppo dirigente nuovo. Ma non partecipo a una corsa fine a sé stessa a chi alza per primo il dito per autocandidarsi alla segreteria». Parla di un «partito dei territori, guidato da amministratori locali», cioè dai ranger di De Micheli.

Alla domanda conseguente («Allora le va bene Bonaccini?») da una risposta pienamente assurda, cioè totalmente priva di significato: «Con Bonaccini ho un ottimo rapporto». Poi però si spiega, a modo suo. Essendo il presidente della regione Emilia-Romagna, candidato in pectore da mesi dell’irredentismo renziano, Nardella precisa: «Non mi presterò a farmi usare come candidato anti qualcuno». Tradotto: non vado alla conta con Bonaccini, mi piacerebbe essere candidato da un accordo preventivo tra le correnti.

Un desiderio in netto contrasto con la nuova realtà della balcanizzazione, dove tutti corrono contro tutti. Come dimostra proprio il caso di Bonaccini, che impersona l’anima della destra governista e si vede contrapporre la sua vice, Elly Schlein, che impersona l’anima di sinistra, ma soprattutto eccita gli spiriti innovatori per la sua curiosa natura di candidata alla guida di un partito al quale non è iscritta.

Sullo sfondo c’è naturalmente la dissimulazione di stampo democristiano di tutti i partecipanti al talent show per la segreteria Pd: prima di discutere dei nomi dobbiamo decidere chi siamo. Ecco il sindaco di Pesaro Matteo Ricci.

A domanda precisa («Si candida per la segreteria del Pd?») risposta netta: «È presto per parlare di nomi». Ricci parla da ranger: «Dobbiamo ristabilire un rapporto profondo col popolo. Per fare questo penso che serva la sinistra di prossimità degli amministratori locali e sicuramente darò come gli altri il mio contributo di idee».

Ma al popolo bisognerà dire qualcosa, ed è la cosa più difficile: quelli del Pd, “amalgama mal riuscito” secondo la storica definizione di un fondatore, Massimo D’Alema, non sono in grado di dire “chi siamo”: sono il partito di Elly Schlein o del tecnocrate Carlo Cottarelli? Sono il partito della povera gente o degli imprenditori? E a queste domande si può rispondere con un voto a maggioranza? E se vince il partito della povera gente i fans di Cottarelli che cosa fanno? Si buttano a sinistra o se ne vanno? E se vincono i fans di Cottarelli che cosa fa l’attuale vice segretario Peppe Provenzano, altro candidato in pectore dell’anima popolare?

La linea politica Benetton

Nel momento calamitoso, dire che bisogna parlare di politica e non di nomi vuol dire esattamente il contrario. In un partito che ha come unico riferimento culturale reale la tradizione democristiana, meno si parla di politica meglio è: è l’unico modo di nascondere le differenze. Letta lo ha teorizzato in campagna elettorale.

Candidare Schlein e Cottarelli è stata per il segretario uscente la mossa di un partito plurale che offre all’elettorato un ricco menù in cui ciascuno può trovare il piatto che gli piace: il tecnocrate antipopolare e la donna ambientalista e amica del popolo.

Esattamente un anno fa De Micheli ha rivendicato con orgoglio che il Pd, con la sua vocazione di stare sempre al governo, naturalmente per senso di responsabilità, «ha interpretato un pezzo di quello che nella prima repubblica è stato il ruolo della Dc». Questo sarebbe un buon punto di partenza, discutere non solo di “chi siamo” ma anche di “che cosa siamo stati”.

Sarebbe interessante che De Micheli si candidasse alla guida del Pd rivendicando, e sottoponendo al giudizio degli iscritti, la sua gestione dell’operazione autostrade: ha preso in mano il dossier che prevedeva la revoca della concessione autostradale di Aspi dopo il crollo del ponte Morandi e lo ha abilmente pilotato verso una soluzione che ha tutelato gli interessi dei Benetton al punto da provocare un’inchiesta della procura della Repubblica di Roma.

Questo sarebbe un ottimo argomento per chiarire agli iscritti la natura del loro partito e per decidere se la linea della candidata De Micheli (dal Pd al Pda, Partito delle autostrade) sia quella giusta.

Ma è proprio per questo che tutti i candidati alla leadership preferiscono il concorso di bellezza, la sfida sui nomi e sulla loro bravura in televisione.

 

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