I risultati delle due principali regioni italiane chiamate al voto, Lombardia e Lazio, non sono rappresentativi, ma perché sono “meglio della media”. 

Certo qualche Cinque stelle sparso si è perduto a livello locale, ma più certo è che le due grandi città, Roma e soprattutto Milano, sono ben più a sinistra del resto della nazione.

Quindi il campione elettorale di questo voto locale è in realtà spostato a sinistra, e neppure in queste circostanze risulterebbe vincente anche se le sinistre si fossero presentate unite, anche senza contare i voti che si sarebbero persi per strada perché a molti “duri e puri” una coalizione ampia (il “campo largo”) sarebbe risultato indigeribile.

Il voto alle urne

Ora, vota a destra soprattutto chi teme il cambiamento. E la situazione economica non solo non si presenta drammatica, ma ha visto concreti e insperati miglioramenti. Tutte le innumerevoli piccole corporazioni italiane si sentono assai ben rappresentate e difese da Giorgia Meloni, molto più che dall’avventurismo internazionale leghista, mentre il declino di Forza Italia può essere rallentato ma difficilmente reversibile (e neppure lei è scevra da sussulti internazionali avventuristi, come si è visto). 

Circa il suo dichiarato liberismo è meglio sorvolare, data la sua natura di partito-azienda, ai cui interessi risulta ancora solidamente ancorato.

Vota a sinistra chi vuole il cambiamento: mica poi tanti, perché il livello di benessere complessivo è abbastanza elevato (abbiamo ancora l’ottavo Pil mondiale), e, con un indice di Gini (post-ridistribuzione) sotto i 30, nemmeno le diseguaglianze sono estreme, se non per situazioni (extracomunitari) o per aree geografiche particolari.

Prendiamo spunto dall’analisi del sociologo De Masi, per certi versi davvero condivisibile, che vede nel Pd il partito socialdemocratico della piccola e media borghesia impoverita o che si percepisce minacciata, che lascia volentieri la difesa degli ultimi e degli esclusi al M5s, e non teme troppo di perdere consensi su quel lato, che non si sente di rappresentare. Ma quanti sono questi ceti medi impoveriti e vagamente progressisti? Non certo folle numerose.

Sono certo più numerosi gli ultimi e gli esclusi, ma sono strutturalmente deboli, anche se non è il caso di scomodare Marx che esita ad annoverarli tra i motori della storia. Vedono indebolirsi il progetto sociale che in qualche modo gli restituiva una dignità ufficiale, il reddito di cittadinanza, destinato a cadere e a frantumarsi sotto la scure di Meloni e i suoi alleati.

Ovvio che molti di questi emigreranno verso lidi più esplicitamente clientelari, in cui la destra è grande maestra (i mille rivoli dei sussidi, che purtroppo han fatto scuola anche a sinistra, intorbidendo non poco il quadro). E questi non chiederanno cambiamenti, al massimo sussidi maggiori e certi, con nome e cognome del benefattore da votare alla prima occasione. Ma il voto non è necessario per attivare quei meccanismi, spesso basta il passaparola.

I liberali

Ci sono poi i volenterosi che vorrebbero cambiare per scelta, non per bisogno. È il glorioso drappello dei liberali, che negli anni ha visto molte forme, dai repubblicani ai liberali propriamente detti, a frange socialiste, sempre con ridottissimi risultati elettorali, con la massima aspirazione di configurarsi come vari aghi di varie bilance. Il duo Calenda-Renzi sembra aderire a questo stesso progetto, ma con modeste prospettive.

Anche perché le scelte moderatamente liberiste di Meloni sembrano eroderne molti spazi potenziali, portandogli via una quota di “borghesi contenti”. Un contesto potenzialmente molto statico, con travasi di voti essenzialmente interni ai due schieramenti.

Perché emergano forti spinte al cambiamento, sarebbe necessario che molti gruppi sociali venissero a trovarsi in condizioni economiche nettamente peggiorate. Non si tratta certo di un “tanto peggio tanto meglio”, il meglio sarebbe remoto e incerto, a dir poco.

Uno scenario potrebbe essere il fallimento sostanziale del Pnrr, cioè l’arresto della crescita economica in presenza di una spesa pubblica in continua crescita per il sostegno a imprese in difficoltà e a famiglie sempre più anziane, bisognose di cure crescenti e incapaci di produrre reddito.

Fatti gli scongiuri di circostanza, non si vede perché il governo Meloni non sia in grado di risfoderare le sue origini populiste e farvi fronte con operazioni ridistributive-clientelari magari modeste ma sufficienti a garantire la pace sociale (e qualche effetto keynesiano che non guasterebbe).

E la sinistra? Resistere, resistere, resistere. «Addà passà a nuttata», e anche senza vecchie talpe un po’ stanche di scavare. Le ragioni ideali di cui è portatrice rispetto ai (dis)valori piccolo borghesi di questo governo splendono come il sole.

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