Il segnale plastico della crisi della Lega è l’esclusione del fondatore, Umberto Bossi, dal parlamento. Il Senatur, candidato come primo in lista nel listino proporzionale del collegio alla Camera di Varese, è stato vittima dell’onda di Fratelli d’Italia: 29 per cento a FdI, 14 per cento Lega e il seggio proporzionale al partito di Giorgia Meloni.

Dopo 35 anni, quindi, esce dal parlamento il simbolo della Lega Nord, che Matteo Salvini aveva citato proprio al momento della composizione delle liste, dicendo che «per Bossi un posto ci sarà sempre». Così non è stato ed è il simbolo del fallimento dei calcoli di Salvini.

E a poco serve la richiesta riparatoria del segretario: «Lo proporrò come senatore a vita. Sarebbe il giusto riconoscimento dopo trentacinque anni al servizio della Lega e del paese. Porterò avanti personalmente, sicuramente con l'appoggio non solo della Lega ma di tantissimi italiani, questa proposta».

La notizia dell’uscita di scena di Bossi, nell’aria già da ieri, arriva a poche ore dall’inizio del consiglio federale della Lega, che si svolgerà oggi in via Bellerio e in cui il segretario ha detto che «ascolterà le analisi dei governatori», ma ha escluso qualsiasi ipotesi di sue dimissioni. «Sono carico a molla, governeremo 5 anni», ha detto nella conferenza stampa di ieri, pur ammettendo che «il 9 per cento non è il risultato per cui ho lavorato».

Il risultato

Il 9 per cento è la dimostrazione che qualcosa è andato terribilmente storto. La soglia psicologica era il 10 per cento, ovvero la percentuale più alta ottenuta da Bossi nel 1996, in cui la Lega si presentava solo in quattro regioni del nord. Proprio di questo dovrà rispondere Salvini, insieme alla debacle del doppiaggio in quasi tutte le regioni, nord compreso, da parte di Fratelli d’Italia.

I governatori Luca Zaia, Massimiliano Fedriga e Attilio Fontana faranno l’analisi della sconfitta, ma a suonare il requiem anticipato è l’ex segretario Roberto Maroni, che dice apertamente che è ora di sostituire Salvini. «Serve un nuovo segretario», ha scritto sul Foglio, «Ora si parla di un congresso straordinario. Ci vuole. Io saprei chi eleggere come guida, ma per adesso non faccio nomi».

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Salvini resiste

Difficilmente la fine della segreteria sarà oggi. Salvini non ha alcuna intenzione di dimettersi e lo ha chiarito nella conferenza stampa post-voto. Anzi, i gruppi parlamentari appena composti sono fatti di suoi fedelissimi (buona parte dei parlamentari uscenti vicini ai governatori e al ministro Giancarlo Giorgetti non sono stati ricandidati) e lui sta premendo su Meloni per ottenere un ministero di peso. Il Viminale rimane il preferito, ma le chances di tornare all’Interno sono scarse, tuttavia questa è la prima grana per Meloni nella composizione della squadra di governo.

Inoltre, per spodestare Salvini serve uno sfidante vero e proprio. Per ora nella Lega i malumori sono emersi sempre più distintamente, ma non anche il nome di un nuovo leader pronto a caricarsi sulle spalle un partito in difficoltà di consensi e fallito nel progetto di un allargamento in scala nazionale.

L’unico nome che continua a circolare è quello di Fedriga, ma il presidente del Friuli non ha mai fatto passi veri e propri. Su questo conta Salvini per spegnere ogni spinta di dissenso.

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