Ora ai francesi non restano vie di fuga istituzionali al dissenso, resta solo la vaga speranza che un secondo quesito referendario venga accolto. Il Consiglio costituzionale ha dato il via libera alla riforma delle pensioni, invalidandone solo un passaggio assolutamente non dirimente (l’“indice senior” e cioè l’obbligo per le aziende di dichiarare quanti over 55 impiegano).

Questo pronunciamento dei “nove saggi” era l’ultimo ostacolo istituzionale che si frapponeva all’entrata in vigore del provvedimento più contestato di Francia. A partire da settembre potrà diventare operativo, nonostante la stragrande maggioranza della popolazione sia contraria e nonostante l’assemblea nazionale non lo abbia votato perché la premier ha fatto ricorso a una deroga prevista nell’articolo 49.3 della costituzione.

Ora il presidente Emmanuel Macron – che fino a questo punto della storia ha tirato dritto, ignorando o reprimendo il dissenso – crederà di avere la strada spianata. E visto che uno dei quesiti referendari proposti dall’opposizione per far saltare la riforma è stato rigettato dal Consiglio costituzionale, soltanto se il 3 maggio il secondo quesito venisse validato dai “saggi” – e se ben 4,8 milioni di firme venissero poi raccolte – allora dal 2024 se ne potrebbe ridiscutere.

Il fatto è che però non basta un via libera scandito da nove membri di un Consiglio in una sala agghindata di drappi e di dipinti dentro il Palazzo Reale, perché anche la Francia si sintonizzi a favore. Non bastano gli schieramenti di forze dell’ordine a far muro davanti al Palazzo, per fermare le proteste.

Checché ne pensi Macron, o la premier da lui scelta Élisabeth Borne, la determinazione ad andare avanti a dispetto di tutto non è senza conseguenze. La Francia esce provata da questo passaggio, e pure Macron e Borne. Anche da destra ormai il presidente e il governo appaiono indeboliti, con margini sempre più stretti di manovra per guidare il paese.

La scelta di non tentare alcuna riappacificazione sociale ha fatto schizzare l’estrema destra di Marine Le Pen nei sondaggi – esattamente il contrario di ciò che Macron dichiarava di voler fare quando è entrato in politica. E il paese ora è pieno di ferite: i sindacati hanno constatato per l’ennesima volta che le minime aperture al dialogo di Borne erano un bluff, i giovani in piazza che le forze dell’ordine non esitano a reprimere le proteste con la violenza, le associazioni che il governo è pronto a chiuderle o a tagliar loro i fondi se denunciano le derive indemocratiche.

La scelta del Consiglio

Alle sei del pomeriggio di questo venerdì è arrivata la fumata bianca dal Consiglio costituzionale, guidato dall’ex premier Laurent Fabius, e composto anche da Corinne Luquiens, che ha presentato ai colleghi una bozza di decisione, Alain Juppé, ex primo ministro avvicinatosi negli ultimi anni a Macron, Jacques Mézard, ex ministro dell’èra Macron e da quest’ultimo indicato per il Consiglio, inoltre tre membri con una storia politica che guarda a destra - Jacqueline Gourault, François Pillet e François Seners – poi la magistrata Véronique Malbec, vicina all’attuale ministro della Giustizia, e l’ex consigliere di stato Michel Pinault.

Neppure i nove hanno potuto negare l’evidenza, e cioè «la combinazione insolita delle procedure»: oltre a schivare il voto dell’assemblea nazionale, il governo ha in più passaggi e con più strumenti limitato il dibattito sulla riforma. Ma stando al Consiglio tutto questo «non ha avuto l’effetto di rendere incostituzionale l’iter legislativo». Certo, in pochi avrebbero scommesso su uno stop totale al provvedimento, ma più voci – anche commentatori orientati a destra – ritenevano plausibile una censura almeno parziale.

I precedenti ci sono eccome. Il Consiglio costituzionale è stato istituito nel 1958 e da allora il suo raggio di azione si è di fatto trasformato. L’attivismo e l’influenza esercitati da questa camera di compensazione sono cresciuti nel tempo: per la prima volta negli anni Settanta una legge – la “loi Marcellin” – è stata invalidata dal Consiglio. Una contestazione parziale si è abbattuta a fine 2012 su un provvedimento ritenuto chiave dall’allora presidente François Hollande, e cioè la tassa con aliquota al 75 per cento.

Anche le scelte di Macron sono più di una volta passate sotto lo scrutinio dei saggi. Due anni fa ne è uscita parzialmente invalidata la loi sécurité globale, che incarnava già la deriva illiberale e che era spinta dal ministro dell’Interno Gérald Darmanin. Prima ancora, nel 2020 della pandemia, il Consiglio aveva fatto alcuni rilievi sulla proroga dello stato di emergenza.

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