«Posso diventare il premier olandese solo se tutti i partiti della coalizione sono d’accordo su questo, e non è stato così». Dopo mesi e mesi di tentativi, Geert Wilders, l’antesignano europeo di Trump, l’islamofobo e xenofobo della prima ora, il vero vincitore delle ultime elezioni, ha dovuto sventolare bandiera bianca: la possibilità di essere lui il capo di governo sfuma. «Chi sarà il Giuseppe Conte d’Olanda?», si chiede ora il politologo olandese Cas Mudde, esperto di destre estreme.

L’esperimento olandese

La scelta di escluderlo dall’incarico più importante serve alle altre componenti di una futura coalizione per gestire la convivenza con l’estrema destra senza perdere irrimediabilmente la faccia: per evitare che Wilders diventi premier come la sua maggioranza relativa suggerirebbe, i leader degli altri partiti hanno usato uno stratagemma, e cioè accordarsi sul fatto che nessuno di loro entrerà nell’esecutivo; resteranno in parlamento.

La mossa è di facciata, visto che la normalizzazione dell’estrema destra è a uno stadio avanzato anche in Olanda. Nel dopo Rutte, Dilan Yeşilgöz-Zegerius, alla guida del Volkspartij voor vrijheid en democratie (Vvd), aveva detto già prima del voto di esser pronta a dialogare anche con l’estrema destra di Wilders. Ma né Vvd, né il neonato Nieuw sociaal contract, nato attorno a Pieter Omtzigt, pensavano di dover digerire un Wilders premier. Così i leader di questi due partiti, e del BoerBurgerBeweging, il movimento contadino, si sono accordati perché nessuno di loro entri nel governo, e tantomeno quello del Pvv.

Ma nel Pvv «c’è letteralmente solo Wilders» che lo ha fondato, nota Cas Mudde. Che perciò si domanda «chi sarà il premier outsider in stile Conte», e ritiene che la mossa esclusiva verso Wilders serva anzitutto alla leader del Vvd, Yeşilgöz-Zegerius, per «non essere “contaminata” dalla collaborazione con l’estrema destra qualora la normalizzazione non riuscisse pienamente».

L’ultima apparenza

«Ma avrei dovuto essere io il premier», rimbrotta Wilders. Dopo aver passato ben un quarto di secolo da parlamentare, alle elezioni di novembre ha sormontato tutti gli altri partiti in un exploit fino a quel momento mai raggiunto. Inedito è anche il terzo posto di André Ventura alle elezioni portoghesi dello scorso weekend, se è per questo. E in generale tutti i sondaggi suggeriscono che alle europee il gruppo sovranista di Identità e democrazia – del quale Wilders e Ventura fanno parte – crescerà.

Per le destre estreme, il momento è d’oro, non solo per le cifre, ma per il processo di normalizzazione senza il quale questi successi non sarebbero possibili. Ma c’è ancora qualcosa di incompleto, in questa mutazione: mentre il centrodestra europeo ha già metabolizzato completamente il versante meloniano dell’estrema destra, che è collocato nel gruppo dei Conservatori, invece verso Identità e democrazia resta ancora qualche labile resistenza di facciata. In Ue le destre votano già spesso tutte assieme, e di governi che si appoggiano alla destra estrema se ne vedono sempre di più: Italia, Svezia, Finlandia...

Ma per ora l’apparenza del cordone – anche se quel cordone si sposta sempre più in là – è funzionale alla sopravvivenza del sistema. Quindi a Wilders è concesso di entrare in una coalizione, ma non di esserne il volto; e l’estrema destra portoghese di Chega vien tenuta fuori da un accordo di coalizione dal centrodestra, per ora.

Quanto ai sovranisti nostrani, la Lega è in controtendenza rispetto al suo gruppo, Id, non solo perché governa, ma anche perché è previsto che a giugno il suo numero di seggi crolli rispetto al 2019. I tentativi di grandezza salviniani non fanno che deflagrare: al suo appuntamento fiorentino di dicembre, Le Pen, Ventura e Wilders non si sono fatti vedere. Ora l’appuntamento romano di Id, previsto per il 23 marzo, è a tal punto un’incognita da essere tenuto sotto tono.

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