«È come se stessimo uscendo da anni di maltrattamenti: siamo increduli. Davvero si potrà tornare alla normalità?». Zuzana Vlasatá è una giornalista d’inchiesta, ad Andrej Babis ha dedicato un libro – il bestseller Il barone giallo – e nessuno sa meglio di lei che la recente sconfitta elettorale di Babis non basterà a decretare un cambiamento radicale in Repubblica ceca. Il magnate dei conflitti d’interesse, il Berlusconi di Praga, come lo chiamano da quelle parti, «manterrà il controllo di molti settori chiave». E soprattutto ci sono primati che il vincitore Petr Pavel non può né vuole conquistare. L’ex generale era stato il primo militare di un paese dell’ex blocco sovietico a finire a capo del comitato militare della Nato, e dopo una campagna elettorale da outsider ha conquistato sul campo la presidenza. Ma nonostante i suoi ammiccamenti al mondo liberale – diritti lgbt inclusi – non è un leader di sinistra né intende diventarlo. Al governo c’è la coalizione guidata dal premier Petr Fiala, l’alleato conservatore di Meloni. E la sinistra? «Una sinistra moderna nel mio paese semplicemente non esiste», dice Martin Ehl, senior fellow di Visegrad Insight. Se mai Praga riuscirà a liberarsi del tutto dell’ombra di Babis – il che è improbabile – il vero miracolo sarà resuscitare la sinistra, trascinata con sé dal magnate dentro la fossa elettorale.

Il referendum anti Babis

Venerdì e sabato scorso, al secondo turno delle presidenziali gli elettori cechi hanno preferito Pavel a Babis con oltre il 58 per cento, nonostante il secondo abbia condotto la campagna più spregiudicata di sempre. Del resto è la biografia stessa di Babis a meritarsi l’aggettivo, vista la rapacità con cui ha divorato industria, media e politica. Quinto uomo più ricco del paese, da giovane si avvicina al partito comunista e la sua carriera inizia come rappresentante in Marocco della Petrimex. Di questa industria chimica diventa rapidamente un dirigente. Quando la Cecoslovacchia si divide in due, e così l’azienda, lui assume le redini dell’ala ceca, Agrofert; merito di fondi stranieri opachi ed entrature o, stando alla sua versione, «merito dei compagni di scuola svizzeri». Non contento di padroneggiare Agrofert, conglomerato con rami che vanno dalla Germania alla Cina, Babis si prende anche il colosso mediatico Mafra.

Poi scala la politica: è il 2011 e fonda Ano, Azione dei cittadini scontenti; diventa ministro, quindi premier nel 2017. Per anni la Commissione europea è stata zitta, infine pure Bruxelles ha dovuto conclamare che Babis dirottava sul suo impero i fondi Ue ottenuti dal suo paese. Gli resta, a perdonargli tutto, la giustizia locale, che pure lo scorso 9 gennaio lo libera da un’accusa di frode. Dal 2021 Babis non ha più la premiership, e quest’ultima è «la terza elezione che perde, dopo le locali e le parlamentari». E dire che – come racconta Ehl – «ha usato ogni strumento: ha detto che Pavel stava apparecchiando la terza guerra mondiale». Dopo questa campagna, la disinformazione è al centro del dibattito nel paese. C’è chi l’ha chiamata «una campagna ungherese»; del resto l’argomento della «pace» è stato strumentalizzato in precedenza anche da Viktor Orbán, che di Babis è un gran sostenitore.

Il futuro di Praga

Pavel non è solo il presidente “schierato a occidente”, ma è soprattutto l’outsider che ha vinto presentandosi come lo stabilizzatore in un paese sempre più polarizzato e provato. «Ristabiliamo l'ordine e la calma» è non a caso il suo slogan. «Ha intessuto relazioni per cinque anni, ha potuto contare su ex diplomatici e giri influenti, ha girato il paese: la sua non è una vittoria improvvisata», spiega Zuzana Vlasatá. A Babis resta comunque «il controllo dell’amministrazione finanziaria, dell’ispettorato ambientale, di settori chiave dello stato». Non rinuncerà al potere, e infatti è già proiettato sulle politiche del 2025. Per vincerle – scommette Ehl – «punterà all’elettorato di estrema destra»: è un circolo vizioso, perché così il paese si frattura ancor più.

Il punto è che una alternativa a sinistra non esiste: «A un certo punto della sua storia politica Babis ha puntato alla socialdemocrazia e ai suoi elettori; i socialdemocratici hanno accettato la coalizione con lui e stanno realizzando troppo tardi che questa è stata la loro condanna. Nel frattempo sono precipitati sotto il 5 per cento», dice Zuzana Vlasatá. Il giornale che lei codirige, Deník Referendum, fa parte della storia progressista del paese: lo ha fondato nel 2009 un ambientalista, Jakub Patocka, che tuttora ne è direttore. Ma Vlasatá non vende illusioni: «Anche il partito verde è di fatto morto. Gli unici gruppi di sinistra progressista sono circoli di amici senza potere. Tanti di sinistra, anche giovani, hanno accettato di votare per un ex generale Nato pur di fermare Babis».

© Riproduzione riservata