In un regime totalitario anche il cibo è politica. Il regime nazionalsocialista al potere in Germania a inizio Novecento ne era ben consapevole. Il nutrimento dei cittadini del Reich doveva riflettere lo spirito “tedesco” del regime.

Alcune tracce delle abitudini culinarie che vennero imposte alla popolazione in quel periodo perdurano ancora, ma anche l’approccio al cibo continua a riflettere in parte l’educazione che veniva impartita ai ragazzi del secolo scorso.

La propaganda

Uno degli obiettivi più importante per i nazisti nei primi anni del regime era quello dell’autarchia. Consapevoli di dover importare un quinto del fabbisogno alimentare nazionale, nel 1933 i gerarchi istituirono un ente apposito per riorganizzare la gestione del cibo, il Reichsnährstand, che regolava produzione, commercio e finanziamento di agricoltura e allevamento e a cui dovettero unirsi 17 milioni di persone. Sei anni dopo, nel 1939, arrivò il Reichsvollkornbrotausschuss, la Commissione del Reich per il pane integrale. Il compito principale dell’organismo era di favorire la diffusione del pane integrale, all’epoca disprezzato come alimento umile.

I nazisti tentarono di nobilitarlo indicandolo come il cibo perfetto per la nobile “razza ariana” fatto di grano coltivato da contadini dall’”animo puro”. La motivazione reale, però, era banalmente economica: produrre il pane a base di segale, coltivato in patria, costava molto meno che importare il grano dall’estero. Il pane di segale o con i semi è rimasto ben saldo nella tradizione culinaria tedesca anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale.

Adolf Hitler nella Prima guerra mondiale aveva subito sulla sua stessa pelle il disagio della fame quando era soldato in trincea e, memore dell’effetto devastante della malnutrizione sul morale di popolazione ed esercito, mise subito al lavoro i suoi uomini per garantire il sostentamento alla popolazione. Alla fine della guerra, la malnutrizione era comunque molto diffusa, ma gli storici convengono sul fatto che andò meglio che nel primo conflitto mondiale.

Travestimento autarchico

L’autarchia venne travestita da Nahrungsfreiheit, libertà di nutrimento, un ideale che prevedeva l’uscita «dalla schiavitù del mercato mondiale degli alimenti». Il primo alimento di cui era assolutamente necessario liberarsi era il burro. Il consumo di grasso eccedeva la produzione nazionale e a lungo termine l’importazione non sarebbe più stata sostenibile. Fin dai primi anni del conflitto, dunque, fu razionato.

I gerarchi iniziarono a promuovere come prodotto sostitutivo il Quark, un formaggio di mucca di consistenza simile alla ricotta ma con un sapore più acido. Anche in questo caso, il Quark si è imposto come prodotto centrale della cucina tedesca (viene usato per esempio nella Käsekuchen, la cheesecake tedesca). Eppure il burro ha presto recuperato la sua importanza.

I gerarchi e la carne

L’altro alimento che con il tempo divenne scarso era la carne, che rimase solo nella disponibilità dei gerarchi. Ma anche in questo caso, la propaganda trovò presto una soluzione. Già nel 1933, ogni seconda domenica divenne un Eintopfsonntag, la domenica del minestrone, un evento a cui tutte le famiglie potevano prendere parte e che avrebbe dovuto rafforzare il sentimento di identità del popolo. La ragione reale era quella di mettere da parte la carne, già all’epoca alimento prezioso.

Parallelamente al controllo dei consumi privati, il regime si dedicò alla riorganizzazione dell’agricoltura. Capo del Reichsnährstand era Walther Darré, agroindustriale con velleità letterarie, che per riportare la gente nei campi attribuì alla classe agricola una nobiltà ideale e mistica, rendendola l’esempio da seguire per il resto della popolazione, corrotta dalla città e dal progresso.

Quasi in chiave pastorale e agreste, determinò che i contadini fossero «il rinnovamento dalle forze originarie del carattere nazionale, dal sangue, dal suolo, dal sole e dalla verità».

Contadini e ideologia

Sia lui sia Heinrich Himmler, capo delle Ss e a sua volta ingegnere agrario, facevano parte della Lega degli Artamani, una comunità di nazisti poi assorbita nella gioventù nazionalsocialista che combinava l’ammirazione per la tradizione “pura” dei contadini con l’ideologia razziale. Una delle improbabili tesi che discendeva da questo binomio era la superiorità della razza ariana dovuta al fatto che, a differenza delle altre, allevava suini e consumava la carne di maiale.

Ma i nazisti sperimentavano anche nuove strade per aggirare i problemi delle forniture sempre più scarse con il progredire del conflitto, recuperando per esempio la coltivazione e l’allevamento di specie endemiche quasi estinte.

Himmler stesso aveva fatto realizzare ai margini del campo di concentramento di Dachau un giardino biodinamico in cui i prigionieri erano costretti a coltivare erbe e condimenti che venivano utilizzati dal capo delle Ss per riti esoterici, oppure venduti al mercato di Dachau. Da alcune erbe medicinali venivano anche estratte sostanze per realizzare cure per i soldati al fronte.

L’approccio al cibo

Del regime nazista rimane traccia anche nell’approccio al cibo. Non esistono ancora dati tangibili, ma gli studiosi non escludono che i problemi che accompagnano la concezione del proprio corpo possano essere condizionati dagli atteggiamenti di genitori e nonni. L’atteggiamento con cui ci si siede a tavola e ci si guarda allo specchio può dunque contenere un riflesso della rigida educazione che hanno ricevuto i Kriegskinder, cioè la generazione che era bambina ai tempi della guerra, che l’ha trasmessa ai proprio discendenti.

Secondo Ingrid Meyer-Legrand, una psicoterapeuta interpellata dalla Zeit, tutto parte da un libro molto diffuso tra le madri dell’epoca, Die deutsche Mutter und ihr Kind, “La madre tedesca e suo figlio”.

La raccomandazione principale era di crescere i bambini senza legami con i genitori, una circostanza che può creare problemi nello sviluppo dell’autostima. Alle indicazioni del regime si è aggiunta la guerra, una combinazione che ha prodotto una generazione di persone più facilmente inclini a problemi di empatia, solitudine e bisogno di controllo, come emerge da uno studio dei primi anni Novanta.

Un atteggiamento che secondo la storica Barbara Stambolis si è trasferito anche sul rapporto con il cibo, per esempio nel senso di mangiare secondo un certo ritmo ed essere frugale. Il controllo si manifesta anche nell’attuazione della propria volontà. In particolare, nei confronti dei segnali che si ricevono dal proprio corpo, che di conseguenza vengono ignorati. Ma la sensazione di aver il pieno potere decisionale sulla funzionalità del proprio organismo, e su cosa viene ingerito, secondo gli esperti, può essere anche inteso come sinonimo di stabilità e sicurezza in una vita segnata irrimediabilmente dal trauma della guerra. In ogni caso, un legame difficilissimo da sdradricare.

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