I dati usciti questa settimana confermano che l’inflazione continua lentamente a calare in tutti i paesi europei (tranne che in Olanda), e che lo fa più di quanto non avessero previsto gli analisti. In Italia, essa rimane più alta che nei paesi partner, ma comunque cala significativamente rispetto al mese precedente, attestandosi all’8,1 per cento (contro il 6,1per cento per l’eurozona).

Tutte le componenti hanno visto il ritmo di aumento dei prezzi rallentare; spicca l’energia, i cui prezzi da qualche mese sono addirittura calati, tornando ai livelli di inizio 2021. Questa non è la sola buona notizia; anche l’inflazione di fondo, quella depurata dei prezzi di energia e alimentari, rallenta più del previsto.

L’inflazione di fondo è un indicatore più pertinente di quella complessiva, perché cattura la diffusione delle tendenze inflazionistiche nell’insieme dell’economia, indipendentemente dalla fonte dello shock originale. Quando i prezzi dell’energia sono esplosi, nel 2021, c’è stato bisogno di tempo perché gli aumenti dei costi si trasferissero ai prezzi degli altri settori, alimentando l’inflazione di fondo.

Simmetricamente, il calo iniziato nell’autunno scorso ha tardato a farsi vedere nel resto dell’economia, come il mare che rimane agitato dopo la tempesta. Il fatto che l’inflazione di fondo abbia finalmente iniziato a calare significa che, se non si verificano altri shock (cosa non da escludere in quest’epoca di instabilità), il problema inflazione dovrebbe essere dietro di noi. Tuttavia, il rischio di nuove fiammate dei prezzi non è da escludere, anche se non per le ragioni evocate abitualmente.

Ancora oggi, con l’inflazione in calo, banchieri centrali e commentatori invitano alla cautela e sostengono che i tassi dovrebbero aumentare ancora per metterci al riparo da una rincorsa salariale come quella che fu osservata negli anni Settanta: aumenti dell’inflazione che sindacati e lavoratori compensano chiedendo salari più alti, cosa che aumenta costi di produzione e prezzi per le imprese, e via di seguito, in una spirale prezzi-salari. Tuttavia, fin dall’inizio questo argomento sembrava debole.

Da un lato, i meccanismi di indicizzazione salariali sono oggi molto meno diffusi; dall’altro il potere negoziale dei sindacati si è molto ridotto. Quindi, le premesse per la spirale tanto temuta non erano presenti e non è un caso che, tranne che negli Stati Uniti i salari reali (cioè al netto dell’inflazione) siano crollati negli ultimi due anni.

Come non è un caso che, in modo più strutturale, la distribuzione dei redditi si sia, proprio a partire dalla fine degli anni Settanta, progressivamente modificata a vantaggio dei salari più elevati e, soprattutto, dei profitti. È proprio sui profitti che bisogna intervenire, con una certa urgenza.

Se i salari non hanno seguito l’inflazione, infatti, lo stesso non può dirsi dei margini di profitto, che sono ovunque aumentati in maniera considerevole (ne abbiamo già parlato nel Diario Europeo del 9 aprile). Così, nelle previsioni di primavera di qualche giorno fa della Commissione europea si legge che nel 2022 i profitti sono cresciuti a tassi record, spiegando oltre la metà dell’aumento dei prezzi, ben più del costo del lavoro.

Nei mesi scorsi si sono moltiplicate le dichiarazioni, anche dei vertici delle banche centrali, che mettevano in guardia dagli aumenti eccessivi dei profitti che oggi alimentano l’inflazione. Il termine greedflation, “inflazione da avidità”, è stato addirittura utilizzato in un articolo del conservatore Wall Street Journal, sia pure per argomentare che è grazie all’aumento dei profitti che il mercato del lavoro rimane dinamico. L’articolo è interessante anche per un grafico che mostra come negli Usa i profitti spieghino il 34per cento dell’inflazione nel 2020-2022, ma solo l’11per cento dell’inflazione nel 1970-1979.

Non sono gli anni Settanta!

Insomma, il ruolo dei profitti nell’alimentare l’inflazione non è più in discussione. Le imprese che hanno potere di mercato riescono a trasferire sui consumatori gli aumenti dei costi o addirittura ad aumentare i margini. Rimane tuttavia un dubbio: se le imprese possono aumentare i margini così facilmente, come è successo a partire dal 2021, perché sfruttano il proprio potere di mercato solo ora e non lo hanno fatto prima? Non può essere che siano improvvisamente più avide! Una prima ragione potrebbe essere reputazionale.

Gauti Eggertsson nota come nel 2020 le penurie in alcuni settori fossero state affrontate dalle imprese razionando le quantità e non aumentando i prezzi. Perché nel 2021-2023 hanno fatto il contrario? Secondo Eggertsson, aumentare i prezzi in piena pandemia non sarebbe stato socialmente accettabile, mentre durante la ripresa economica è stato meno visibile e deprecabile.

L’idea che sia una norma sociale a spiegare il comportamento delle imprese negli ultimi due anni è ripresa da Isabella Weber e Evan Wasmer, che sottolineano anche come per le imprese sia più facile colludere e alzare i prezzi in presenza di shock settoriali e di colli di bottiglia.

Il comportamento tipico delle imprese è infatti quello di non discostarsi troppo da quello che fanno i concorrenti; non abbassare i prezzi per evitare guerre dei prezzi che finiscono per penalizzare tutti, e non alzarli per non trovarsi fuori mercato. In caso di aumenti dei costi per un settore specifico, tuttavia, l’incentivo a non alzare i prezzi viene meno, dovendo tutte le imprese cercare di proteggere i propri margini di profitto. Anzi, chi non lo fa rischia di essere penalizzato dagli investitori.

Weber e Wasmer aggiungono che i colli di bottiglia creano un potere di monopolio temporaneo per cui le imprese riescono addirittura ad aumentare i margini, come è stato effettivamente osservato negli scorsi mesi. Infine, paradossalmente, l’aumento dei margini potrebbe essere reso possibile dalle politiche monetarie restrittive e dall’aumento dell’incertezza geopolitica.

Incertezza e tassi di interesse elevati, infatti, aumentano il “valore del presente” per l’impresa, che ha quindi meno interesse a fidelizzare il cliente e quindi meno incentivi a tenere i prezzi bassi, un meccanismo evidenziato già negli anni Settanta dal premio Nobel Ned Phelps.

Insomma, i profitti troppo elevati oggi costituiscono un problema e impediscono all’inflazione di scendere più velocemente. Non è ovviamente questione di stigmatizzare le imprese, che fanno semplicemente il loro lavoro di massimizzare i profitti (lo stesso uso del termine “avidità” è fuorviante). Si tratta più semplicemente di riconoscere che siamo in uno di quei casi, non rari, in cui i loro interessi non sono allineati con quelli della collettività. Prima se ne prende atto, prima la mano pubblica potrà intervenire per preservare il bene comune.

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