Il tre aprile è uscito il Fiscal Monitor del Fondo Monetario Internazionale, il rapporto semestrale nel quale l’istituzione di Washington descrive gli sviluppi recenti delle politiche di bilancio dei paesi membri e analizza le sfide per i decisori pubblici. Questo volume era atteso perché il FMI negli ultimi mesi ha molto insistito sull’impatto dell’inflazione sulla disuguaglianza e ha tenuto alta l’attenzione sui possibili effetti distributivi dell’aumento dei tassi.

Il rapporto ricorda in primo luogo gli effetti redistributivi della fiammata inflazionistica: (a) l’aumento dei prezzi di cibo ed energia ha colpito soprattutto le famiglie più povere, per le quali questi beni costituiscono una proporzione maggiore del consumo. Spingendoci a sollevare la testa dal nostro ombelico, il rapporto ci ricorda che questo effetto è molto più pronunciato in paesi a basso reddito. (b) L’inflazione ha avuto un impatto marcato sul potere d’acquisto, non essendo i salari stati in grado di tenere il ritmo dell’aumento dei prezzi. (c) I debitori, soprattutto nei paesi con mercati finanziari e creditizi più sviluppati, hanno visto la loro posizione migliorare a scapito dei detentori di ricchezza. Incidentalmente, il rapporto nota come, almeno a breve termine, questo contribuisca ad alleviare la pressione sulle finanze pubbliche.

Il fioretto della politica di bilancio

Abbracciando la strategia delle banche centrali, gli economisti del Fondo ritengono necessarie politiche restrittive per comprimere la domanda. Essi raccomandano poi che non sia solo la politica monetaria a frenare, ma anche quella di bilancio, in modo da limitare l’aumento dei tassi di interesse (se a frenare si è in due, ognuno dovrà frenare di meno). Essi aggiungono tuttavia che, sia pure in un contesto restrittivo, trasferimenti mirati potrebbero proteggere i più vulnerabili e far gravare il costo dell’aggiustamento principalmente sulle classi più agiate.

I lettori del Diario Europeo sanno che chi scrive non condivide l’idea che sia necessaria una compressione della domanda per controllare l’inflazione. Tuttavia, il Fiscal Monitor è istruttivo. In primo luogo, perché mette al centro dell’analisi gli effetti redistributivi sia dell’inflazione che delle politiche volte a contrastarla; in secondo luogo, perché sottolinea come se la politica monetaria è una mazza, che spazza tutto sul suo cammino, la politica di bilancio è un fioretto che può contare su una pluralità di strumenti (tassazione, spesa, incentivi e sussidi, etc.) potendo calibrare meglio le politiche economiche e controllarne gli effetti a breve e a lungo termine.

La spirale profitti-prezzi

Mettere la distribuzione del reddito al centro delle politiche pubbliche di rientro dall’inflazione pone inevitabilmente il tema dei salari e dei profitti. A lungo, nei mesi scorsi, le banche centrali e molti economisti hanno giustificato un ingiustificabile aumento dei tassi di interesse con il rischio di una spirale prezzi-salari: aspettative di inflazione avrebbero portato a rivendicazioni salariali, quindi ad aumenti dei costi, dei prezzi, aspettative di ulteriore inflazione, ancora rivendicazioni salariali e via di seguito. Questa spirale non si è materializzata: anche nei paesi dove il mercato del lavoro è stato più effervescente, come gli Stati Uniti, gli aumenti salariali non hanno tenuto il passo dell’inflazione e i salariati hanno visto il loro potere d’acquisto ridursi. Al contrario, come mostra uno studio della Banca Centrale Europea di qualche giorno fa, i profitti sono cresciuti considerevolmente, dato che molte imprese sono riuscite ad aumentare i margini di profitto soprattutto nei settori in cui la domanda è poco sensibile al prezzo (l’alimentare) o in cui si sono verificate strozzature della domanda (semiconduttori, ad esempio). Gli aumenti dei costi sono insomma in molti casi stati scaricati in modo più che proporzionale sui prezzi, gonfiando i profitti in modo ingiustificato. Addirittura, come notato recentemente dal membro del Comitato esecutivo della BCE Fabio Panetta, in molti casi i prezzi al dettaglio hanno continuato ad aumentare mentre quelli all’ingrosso calavano. Se di spirale si tratta, insomma, non è tra prezzi e salari, ma tra profitti e prezzi.

Le politiche pubbliche, in particolar modo le politiche fiscali e di bilancio, devono trovare un modo di spezzare questa spirale. In primo luogo, per tenere sotto controllo l’inflazione, visto che la politica monetaria non può fare nulla contro rendite e comportamenti opportunistici. Anzi, l’aumento dei tassi, raffreddando l’economia e i mercati del lavoro rischia di aumentare il potere contrattuale delle imprese e quindi esacerbare il problema di margini di profitto eccessivi. In secondo luogo, almeno altrettanto importante, per porre un freno all’aumento della forchetta tra profitti e salari. La disuguaglianza è ormai il problema principale delle società occidentali, ed è arrivata a livelli tali da mettere in pericolo quel che resta del contratto sociale.

Tassare le rendite, non i profitti

Nell’autunno scorso i paesi dell’UE hanno cercato di darsi delle politiche coordinate sulla tassazione degli extra profitti delle compagnie energetiche, che hanno preso forme diverse, pur essendo quasi ovunque temporanee (un “contributo di solidarietà”) e condizionali all’aumento dei prezzi oltre una certa soglia. Queste misure hanno due problemi: il primo è che probabilmente non daranno un gettito significativo e non consentiranno di redistribuire risorse ai contribuenti che più hanno sofferto dell’inflazione energetica. Per ovviare a questo problema basterebbe riformulare questo contributo eccezionale svincolandolo dall’andamento dei prezzi. I profitti, infatti hanno continuato a crescere anche quando i prezzi sono passati sotto alla soglia che fa scattare il contributo di solidarietà. Il secondo problema è più strutturale: le misure introdotte dai paesi europei penalizzano anche le energie rinnovabili e sono approssimative nel distinguere tra le normali variazioni cicliche dei profitti, che non dovrebbero essere tassate, e l’accumularsi di rendite. Ancora il FMI, in uno studio recente indica una serie di strumenti per tassare le rendite e non i profitti “normali”, così evitando di penalizzare investimento e crescita della produttività. La conclusione interessante dello studio è che questi strumenti dovrebbero essere permanenti e non temporanei, in modo da ridurre l’incertezza per le imprese, e che per accelerare la transizione ecologica dovrebbero essere concentrati sulle energie fossili ed evitare di inseguire le rendite (che pure esistono) dei produttori di rinnovabili.

Se i margini di profitto sono a livelli eccezionalmente elevati, possono essere riportati verso i valori normali senza infliggere danni all’economia; al contrario, questo consentirebbe prezzi più bassi, minore disuguaglianza, e un margine di manovra per aumentare i salari senza effetti inflazionistici, consentendo ai lavoratori di recuperare il potere d’acquisto perduto (almeno) dal 2021.

© Riproduzione riservata