Le destre estreme hanno penetrato il discorso pubblico europeo condividendo un’agenda disgregatrice e scambiandosi tattiche. Un’analisi realizzata per la Fondazione Friedrich Ebert Italia, e scaricabile per intero gratis, indaga il “copione illiberale”, per riconoscerlo e disinnescarlo. Un estratto
Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, una valanga autoritaria sembra travolgere anche l’Europa. Ma non è una catastrofe inaspettata: lo smantellamento dello stato di diritto e dei princìpi democratici non arriva all’improvviso né solo da oltre oceano. Partiti come l’ungherese Fidesz, Fratelli d’Italia e Lega in Italia, il Rassemblement National in Francia, il tedesco AfD, il polacco PiS o l’austriaco FPÖ alimentano una mobilitazione permanente contro le minoranze e contro l’integrazione politica europea, frammentando la società europea dall’interno.
«Io conduco una lotta culturale e ideologica», diceva già nel 2011 l’esponente della destra xenofoba francese Éric Zemmour, evocando, piegando e abusando del concetto gramsciano di egemonia culturale: «Ho rivolto contro la sinistra le sue stesse armi; sono entrato nella macchina di propaganda delle emissioni tv, in mezzo ad attori, cantanti, in mezzo alla gente».
Utilizzando una rete di think tank come avamposto per tener vive le connessioni e gli scambi, le formazioni di estrema destra europee sperimentano tattiche e condividono tra loro strategie, collaudando così uno schema di azione comune. Questo playbook illiberale ha la dinamica di un martellamento: non all’improvviso, ma colpo dopo colpo, anno dopo anno, trasforma i connotati del discorso pubblico, frammenta le nostre società dall’interno e occupa sempre più spazio.
A marzo del 2025, la Heritage Foundation – il think tank vicino a Trump, noto per aver concepito il piano autoritario Project 2025 – ha raccolto in una stanza a Washington gli esponenti del Mathias Corvinus Collegium – la macchina di soft power orbaniana – e dell’istituto polacco Ordo Iuris – vicino al PiS e noto per averne istruito la battaglia contro il diritto all’aborto – per discutere con la galassia di estrema destra europea del «Grande Reset».
The Great Reset non è solo il titolo di una pubblicazione realizzata da MCC e Ordo Iuris, ma è soprattutto un piano per far regredire l’Unione europea a una pletora di istanze nazionali; non c’è da stupirsi che la Casa Bianca, con presidente e vicepresidente allergici a un’Europa unita, abbia colto l’occasione.
Ma c’è un altro “grande reset” che riguarda il modo in cui articoliamo il dibattito pubblico e che è stato già avviato da oltre 15 anni. Si fonda su un punto di partenza: la costruzione del nemico. E per capire come funziona bisogna guardare anzitutto a chi ha fatto dell’illiberalismo un brand, della deriva autocratica un sistema da esportazione, della retorica anti Bruxelles il suo leitmotiv: Viktor Orbán.
Il messaggio dominante
La deriva autocratica ungherese – in corso dal 2010 e quindi oggi in piena maturità – comincia con la presa dei media, si sviluppa con il controllo su economia e società e si radicalizza con la repressione del dissenso. Specialmente quando queste derive non vengono arginate tempestivamente – come l’Ue non ha fatto tollerando per anni le spinte autocratiche orbaniane – danno adito a un vero e proprio contagio: lo schema di azione collaudato da Viktor Orbán viene esportato anche altrove.
Un caso esemplare è il ritorno al potere di Robert Fico in Slovacchia: il leader slovacco (il cui partito Smer si autodefinisce socialdemocratico) ha potuto anche avvalersi di consulenti dell’entourage orbaniano, oltre a essere in stretto contatto con Orbán stesso. Molte sono le ragioni di questa intesa - la prossimità a Mosca, l’interesse ungherese ad avere una spalla in Consiglio europeo dopo l’arrivo di Donald Tusk al posto di Mateusz Morawiecki in Polonia - ma ciò che la traiettoria dei due premier ungherese e slovacco ci racconta è anche altro: una deriva autocratica non è innescata soltanto dalla spinta a ottenere sempre più controllo e potere, ma soprattutto dalla paura di perderlo. Rispetto al premier che governava l’Ungheria alla fine degli anni Novanta, l’Orbán che dal 2010 avvia una deriva illiberale e una trasformazione autocratica è cambiato soprattutto per una ragione: si è visto scivolare via il potere nel 2002. Anche Fico in un ciclo precedente ha perso la guida del governo: nel 2018 ha dovuto dimettersi per l’assassinio di un giornalista, Ján Kuciak, e per le proteste che ne sono seguite.
Inutile ricordare che anche Trump, le cui derive autocratiche sono già evidenti, è già stato alla Casa Bianca e ha perso la presidenza nel 2020. Non è solo la smania di potere, ma è aver capito che lo si può perdere, a fare da innesco a una deriva illiberale: non limitarsi a governare un paese, ma pretendere di ridisegnarlo, intervenendo sui media, la magistratura, la cultura, l’economia, la politica.
Il primo passaggio dello schema illiberale è dato dal tentativo di controllare l’informazione e quindi il discorso e l’opinione pubblica. In questo Budapest somiglia a Bratislava, le quali a loro volta hanno punti in comune con Roma. Nel 2024 l’Italia è entrata nel gruppo dei “paesi problematici” – proprio dove si trova l’Ungheria di Orbán – nel World Press Freedom Index. Il playbook illiberale è internazionale, e per quanto Orbán abbia avuto il ruolo di iniziatore, le nuove versioni europee talvolta lo superano persino per aggressività.
Controllare il messaggio perché il proprio diventi dominante: questo è senz’altro il primo punto della scaletta illiberale. Ma un altro passaggio è altrettanto determinante, anche perché al potere – anche quello di plasmare l’ecosistema mediatico – bisogna arrivare. Per riuscire ad arrivare al governo e poi assumere sempre più controllo, il playbook prevede uno strumento tanto collaudato quanto devastante: la costruzione di nemici. La regola del divide et impera è fondamentale per comprendere come funziona il grimaldello illiberale.
Il brano è tratto da "Il copione illiberale. Così il discorso pubblico in Europa si è “orbanizzato”, analisi di Francesca De Benedetti, realizzata per la Fondazione Friedrich Ebert Italia allo scopo di decifrare i meccanismi con cui le derive illiberali attecchiscono. L’analisi completa può essere scaricata gratuitamente: un invito alla vigilanza democratica e un contributo al dibattito pubblico. Il progetto rientra in una serie coordinata da Luca Argenta, con cui la Fondazione indaga le trasformazioni della democrazia liberale
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