Un accordo che non è un accordo. Un’intesa concordata, ma non firmata. La maratona negoziale nella città macedone di Ohrid che ha visto impegnati il presidente serbo, Aleksandar Vučić, e il premier del Kosovo, Albin Kurti, con la mediazione dell’Ue, si è conclusa con l’ennesimo artificio retorico dietro cui si cela l’impotenza dell’occidente a porre fine all’ultimo conflitto del Novecento in Europa.

L’ostacolo serbo

L’incontro era stato convocato dal capo della diplomazia europea, Josep Borrell, per trovare la sintesi intorno a una proposta di accordo targata Ue per normalizzare le relazioni tra Belgrado e Pristina. A più di venti anni dalla fine della guerra, la Serbia non riconosce il Kosovo come stato indipendente, ostacolandone l’adesione alle organizzazioni internazionali, in primis alle Nazioni Unite con l’appoggio di Russia e Cina, membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu.

Una prima intesa si era già raggiunta a fine febbraio a Bruxelles. A Ohrid la diplomazia europea, sostenuta da Washington, ha cercato di fare un passo in avanti, quello più complicato: mettere nero su bianco impegni e scadenze specifiche per tradurre l’accordo in realtà.

Le premesse però non lasciavano ben sperare.

La spinta euroatlantica

La proposta sul tavolo dei negoziati era già frutto di un compromesso al ribasso. Nelle intenzioni di Bruxelles e Washington, l’accordo rappresentava una tappa intermedia necessaria a far ripartire un dialogo, quello tra Belgrado e Pristina, in stallo da anni, e a riportare non solo i due stati, ma tutta la regione dei Balcani sulla carreggiata euroatlantica. Dopo sarebbe seguito un altro accordo, quello definitivo, che avrebbe posto fine alla disputa con il mutuo riconoscimento tra Serbia e Kosovo, spianando la strada per l’adesione all’Ue dei due eterni rivali.

Un primo tentativo di procedere in questa direzione c’era stato già dieci anni fa. Allora, gli accordi di Bruxelles avevano portato in dono alla Serbia l’avvio dei negoziati di adesione all’Ue. Diverso il discorso per il Kosovo che solo a dicembre dello scorso anno ha presentato domanda ufficiale per entrare nel club dei 27. Un club che ha opinioni divergenti sulla questione: cinque stati membri - Spagna, Grecia, Cipro, Romania, Slovacchia - non riconoscono tuttora l’indipendenza del Kosovo, proclamata con una dichiarazione unilaterale nel 2008.

Il bandolo della matassa è quindi difficile da trovare, ma urgente.

L’acceleratore ucraino

Il ritorno della guerra in Europa con l’invasione russa dell’Ucraina ha riportato i Balcani in cima alle priorità dell’Ue con l’obiettivo duplice di sottrarre la regione all’influenza di Russia e Cina e di ridurre i flussi migratori lungo la rotta balcanica, la principale porta d’ingresso dei profughi verso l’Europa. Come? Rimettendo in moto il processo d’integrazione europea dei sei paesi dei Balcani, finito per decenni in un pantano.

Queste sono le intenzioni. La realtà però ci racconta qualcosa di diverso. L’accordo di Ohrid, per stessa ammissione di Borrell, è stato al di sotto delle aspettative. Dopo quasi dodici ore di trattative, Kurti e Vučić, ha spiegato l’alto rappresentante Ue, non sono riusciti a mettersi d’accordo sulla proposta «più ambiziosa e dettagliata» messa sul tavolo da Bruxelles. A complicare il quadro, anche il rifiuto di Vučić di firmare i pochi punti concordati. Un epilogo analogo all’incontro di Bruxelles di fine febbraio: anche in quel caso l’accordo di base non era stato suggellato dalla firma dei due leader, nonostante il Kosovo lo avesse richiesto. Allora i mediatori europei avevano motivato la decisione sostenendo che l’accordo si considerava concluso solo con l’approvazione dell’allegato di attuazione, oggetto di negoziato a Ohrid.  Ma la firma è mancata anche stavolta.

Un fallimento grave

Per rendere vincolante l’accordo, le parti hanno concordato di far rientrare il testo nella sua interezza tra le condizioni per aderire all’Ue.

Al di là delle acrobazie diplomatiche e delle ragioni propagandistiche dietro questa scelta, resta un fatto: la difficoltà dell’Ue di far leva sull’allargamento, per decenni il fiore all’occhiello della politica estera di Bruxelles, come fattore di attrazione dei Balcani nella casa comune europea.

Nessuna delle due parti avverte come urgente l’ingresso in Ue, non al punto da modificare uno status quo che consente loro di giocare la carta nazionalista nel dibattito pubblico. E questo è vero soprattutto per la Serbia cui Vučić ha impresso una svolta autoritaria per molti aspetti simile all’Ungheria di Viktor Orbán. Il tutto  nell’inerzia dell’Ue e con effetti destabilizzanti per la regione di cui ora Bruxelles rischia di pagare un conto salato.

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