Eccoci di nuovo insieme, Europa!
Siamo alla sessantunesima edizione dello European Focus!
Sono Teresa Roelcke, la caporedattrice di questa settimana, e ti scrivo da Berlino.
Quello demografico è un tema che ha attraversato in modo implicito svariate puntate dello European Focus. Ora è il momento di affrontare la questione in modo più diretto.
Poche persone, e una enorme carenza di manodopera: questo è un problema col quale tutta Europa si confronta. Nella mia Germania, ad esempio, se non ci fosse immigrazione, la riduzione di popolazione avrebbe impatti pesanti nel mercato del lavoro. Eppure l'Afd, il partito di estrema destra che cresce nei sondaggi, sta pianificando deportazioni di massa.
Come europei assistiamo tutti a conflitti che si sviluppano sul campo della demografia, che si tratti della Francia di Emmanuel Macron, il presidente che invoca il “riarmo demografico”, o della Macedonia del Nord, il cui governo evita i censimenti perché i risultati creerebbero potenziali squilibri coi nazionalisti macedoni e albanesi.

La demografia è insomma un campo di battaglia ovunque, a quanto pare. Spero che la lettura di questo European Focus sia comunque un piacere per te.
Teresa Roelcke, caporedattrice di questa settimana


«NON VOGLIO ESSERE IO A “RIARMARE” LA FRANCIA»

Illustrazione di Coco

PARIGI - Al telefono la voce della ventinovenne Léa Marco esprime convinzione. «Non sento il bisogno di avere un figlio. Mi sento completa senza diventare una madre. Voglio avere tempo per me stessa».
Quasi un cittadino francese su dieci, la maggior parte dei quali ha tra i venti e i trent’anni, condivide la sua opinione.
«Se vivessimo ancora nel mondo in cui sono cresciuta, potrei pensare di avere un figlio senza dovermi preoccupare di continuo per il futuro del pianeta», dice Zelda Hogrel, un’insegnante di ventisette anni che adora i bambini.
«Lavoro nei campi estivi con i bambini, ma io stessa non sento il bisogno di avere un figlio». Mai dalla Seconda guerra mondiale in Francia si sono registrate così poche nascite.
Il presidente francese Emmanuel Macron in tempi recenti è arrivato a invocare – per usare le sue parole – un «riarmo demografico», trasformando così il basso tasso di natalità in una sorta di lotta nazionale.
Questa ingiunzione patriarcale di formare una famiglia ha fatto arrabbiare molte donne. «In quanto insegnante ritengo già di compiere il mio dovere sociale. Non sarò io a “riarmare” la Francia», dice Léa Marco. Che spiega: «Sappiamo tutti che avere un figlio fa emergere le disuguaglianze in una coppia. Le donne devono pensare a tutto, prendersi cura del proprio bambino e del proprio partner.
Inoltre, la pressione dovuta alla necessità di essere un “buon genitore” è molto più forte rispetto a qualche decennio fa: bisogna dedicarsi completamente al proprio figlio».
Come la sua amica Zelda Hogrel, crede che esistano altri modi di far parte di una famiglia, diversi dall’avere figli in una coppia eterosessuale. «Negli ultimi quattro anni ho portato in vacanza una bambina in affidamento, e ho anche pensato di adottarla quando ha avuto problemi con la madre», spiega Hogrel. «Pure investire nell’educazione di un bambino che si ama è una cosa che per noi ha un significato profondo».
Nelly Didelot fa parte della redazione Esteri di Libération


IL NUMERO DELLA SETTIMANA: 11 MILIONI

Gif di Karolina Uskakovych

BUDAPEST - La quantità di agevolazioni finanziarie per le famiglie in Ungheria non ha precedenti.
Le coppie sposate nelle quali la moglie abbia meno di trent’anni hanno diritto a un prestito senza interessi di 11 milioni di fiorini ungheresi (30 mila euro), che non vanno rimborsati nel caso in cui la coppia faccia tre figli. Può anche prendere un prestito agevolato di 50 milioni di fiorini ungheresi (130 mila euro) per l’acquisto di una casa, per fare un altro esempio.
Il problema? Il piano non sta funzionando. Il 2023 ha visto un minimo storico delle nascite ungheresi.
Sembra che le coppie ungheresi preferiscano buone scuole, un’assistenza sanitaria adeguata e salari onesti, piuttosto che i sussidi per i bambini. Nessuna di quelle alternative però rientra tra le offerte del governo.
Viktória Serdült è una giornalista di HVG


COSÌ UN CENSIMENTO DETTA LE SORTI DEL PAESE

Gli abitanti della Macedonia del Nord hanno perso la fiducia nei censimenti. Foto Siniša-Jakov Marusic

SKOPJE - Faccio il giornalista in Macedonia del Nord da sedici anni, e per due terzi di questo tempo il mio lavoro è stato ostacolato da dati ufficiali inattuali e sbagliati. Fino al 2022, quando il paese ha finalmente concluso la realizzazione di un censimento procrastinato per troppo tempo, nemmeno il capo dell’ufficio statistico era in grado di dirmi quale fosse il numero esatto degli abitanti. Ufficialmente erano due milioni e centomila; ma quel numero si riferiva al 2002, dal momento che il paese aveva saltato il censimento del 2011.
Nella maggior parte dei paesi, i censimenti sono operazioni regolari che, per ragioni pratiche, vengono effettuate a intervalli di dieci anni. Qui, invece, il processo solleva delicate questioni etniche relative alla dimensione della comunità etnica albanese rispetto alla maggioranza macedone.
I nazionalisti macedoni hanno sempre voluto un risultato che dimostrasse che gli albanesi del paese costituiscono meno del venti per cento della popolazione. Questa è la soglia che, in base all’accordo del 2001, conferisce agli albanesi determinati diritti. La parte albanese, come ci si aspettava, vuole il contrario, e ha insistito per includere i membri della propria diaspora nel censimento.
Nel 2011 il paese ha scartato il censimento nel bel mezzo del suo svolgimento con la consapevolezza che i nazionalisti di entrambe le parti avevano probabilmente alterato i numeri in maniera così considerevole che nessuno avrebbe preso i risultati sul serio.
Quali sono state le conseguenze per oltre un decennio a seguire? Politiche sbagliate derivate da quei numeri sbagliati. Quindi, ogni volta che ho parlato del tasso di natalità o di mortalità, del prodotto interno lordo, delle politiche economiche o sociali, della migrazione, io e tutti gli altri abbiamo solo potuto ipotizzare quale fosse il quadro reale.
Ora abbiamo i nuovi dati. Il paese ha perso il nove per cento della propria popolazione in vent’anni, e ora conta 1,8 milioni di persone. Le proiezioni dicono che entro il 2050 scenderemo a 1,4 milioni per via delle migrazioni e di un basso tasso di natalità.
Non stupisce che le proporzioni etniche non siano cambiate molto, dal momento che tutti sembrano volersene andare in misura uguale. In fin dei conti, i battibecchi etnici hanno screditato l’idea del censimento, e sono in molti quelli che non si fidano pienamente dei nuovi dati. Politicizzando la questione delle proporzioni etniche abbiamo dimenticato il motivo principale per cui, tanto per cominciare, abbiamo bisogno di un censimento.
Siniša-Jakov Marusic è giornalista di Balkan Insight


CERTE COSE NON CAMBIANO, NEPPURE CON TUSK

Tusk a Danzica in occasione dell'anniversario dell’adesione della Polonia all’Ue. Foto Bartosz Bańka / Agencja Wyborcza.pl

VARSAVIA - «Per anni mi sono sempre opposto fermamente alla cosiddetta “solidarietà forzata”, anche quando ero ancora a capo del Consiglio europeo», ha dichiarato Donald Tusk all’inizio di quest’anno.
Il primo ministro polacco, al potere dallo scorso dicembre, ha la stessa visione restrittiva sull’immigrazione del precedente governo conservatore del Pis.
“Solidarietà forzata” è il nome dato al patto dell’Ue sulla migrazione e l’asilo in quanto prevede che gli stati membri siano tenuti a redistribuire fra loro una certa quota di richiedenti asilo in Ue, o che in alternativa paghino delle ammende.
I due maggiori partiti della Polonia - il Pis che era al governo prima, e la Piattaforma di Tusk che guida il paese ora - si oppongono all’accordo sulla migrazione.
La maggioranza della popolazione polacca è contraria all’immigrazione. Allo stesso tempo, negli ultimi anni per via della mancanza di manodopera la Polonia ha invitato a lavorare centinaia di migliaia di stranieri provenienti da paesi lontani.
È scoppiato uno scandalo sui visti, attualmente oggetto di indagine da parte del parlamento polacco: degli ex membri del governo Pis sono sospettati di aver accettato tangenti per garantire ai migranti provenienti dall’Africa e dall’Asia un accesso più immediato ai visti.
Michał Kokot fa parte della redazione Esteri di Gazeta Wyborcza


LA FAMIGLIA DIMINUISCE: MOLTI NON TORNANO A CASA

Rifugiati di Mariupol lasciano la stazione ferroviaria di Leopoli il 24 marzo 2022. La maggior parte di loro non è tornata in l’Ucraina. Foto ferrovie ucraine

KIEV - Cosa c’è di più bello di una famiglia di 44 milioni di persone?», recita una frase su un murale nel centro di Kiev.
La cifra di 44 milioni rappresenta la popolazione stimata dell’Ucraina prima dell’invasione russa su larga scala, e il murale, realizzato poco dopo l’inizio del conflitto, fa retoricamente appello all’unità nazionale. Nonostante la risposta degli ucraini a questa domanda sia «nulla», la cifra è tutt’altro che corretta, e potrebbe rimanere sempre impossibile da raggiungere.
In quasi due anni di guerra totale, circa sei milioni di ucraini hanno lasciato il paese. Prima dell’invasione, tre milioni di persone lavoravano all’estero, dove la maggior parte di esse è rimasta da allora. Ogni nuovo giorno queste persone rafforzano i propri legami con i paesi ospitanti e riducono le possibilità di ritornare prima o poi indietro.
Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky comprende gli effetti negativi dello spopolamento. Nel suo discorso di Capodanno, tradizionalmente percepito come un momento decisivo per la politica, ha detto una frase piuttosto controversa: «Auguro a tutti coloro che sono ancora indecisi se tornare o meno di fare una scelta coraggiosa l’anno prossimo e di ritrovarsi qui, perché questo è l’unico posto sulla Terra nel quale tutti noi possiamo dire di essere a casa».
Molti probabilmente si comporteranno diversamente. Secondo la principale demografa ucraina, Ella Libanova, la maggior parte di coloro che sono all’estero non tornerà mai più.
Durante le guerre balcaniche degli anni Novanta, un terzo dei rifugiati non ha mai fatto ritorno, e la maggior parte di quelle guerre si è conclusa in meno di due anni.
Vale la pena notare che i rifugiati ucraini sono per lo più ben istruiti. «Il 70 per cento delle donne rifugiate ha concluso gli studi universitari. Pensate che l’Europa che invecchia non sia interessata a tenersele per sé? Certo che lo è!», ha detto Libanova in un recente discorso.
Cosa si può fare? Nel dopoguerra non è previsto un baby boom: fin dagli anni Sessanta le donne ucraine non sono più state inclini ad avere molti figli.
Dunque, la chiave per ricostruire una famiglia di 44 milioni di persone sta nella tolleranza verso gli altri cittadini. Si spera che la crescita economica attirerà persone provenienti da culture lontane; e gli ucraini dovranno accoglierle con cortesia, dice Libanova.
Anton Semyzhenko si occupa della sezione in lingua inglese di Babel.ua


Qual è la tua impressione su questo tema? Ci piacerebbe riceverla, alla mail collettiva info@europeanfocus.eu se vuoi mandarcela in inglese, oppure a francesca.debenedetti@editorialedomani.it
Alla prossima edizione! Francesca De Benedetti


(Versione in inglese e portale comune qui; traduzione in italiano di Marco Valenti)

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