Questa è l'ultima puntata di European Focus per come lo conosciamo: il ciclo di questo progetto, che è stato cofinanziato dall'Ue, si conclude con questa edizione.
Ma la nostra squadra di media europei e di colleghi europei sta già lavorando a una versione potenziata della nostra collaborazione. Sapremo questa estate se in autunno potremo ripartire, e più forte: meglio e più di prima.
Nel frattempo, il lavoro della redazione di Domani per alimentare un dibattito europeo e una sfera pubblica comune non si ferma: continuiamo a promuovere un giornalismo di questo tipo.
Se sei d'accordo terremo aperto il canale privilegiato con chi, come te, si è iscritto alla newsletter paneuropea perché apprezza una veste europea del giornalismo, così da farti avere iniziative e contenuti caratterizzati dallo stesso spirito.
Non possiamo perderci di vista proprio ora che l'Europa è al centro del dibattito, con le elezioni europee di giugno!
Arrivederci a presto, quindi! E intanto buona lettura... Francesca De Benedetti


Eccoci di nuovo insieme, Europa!
Siamo alla sessantatreesima edizione dello European Focus!
Sono Anton Semyzhenko, il caporedattore di questa settimana, e ti scrivo da Kiev.
Vi ricordate quando a scuola arrivava un nuovo compagno? Spesso timido, con un passato che a volte non capivamo del tutto.
Quando qualcuno entra a far parte di una squadra già affiatata, la sfida è sia per il nuovo arrivato – perché tutto è stressante – che per i vecchi volti, ai quali sono richiesti compromessi. In più, non si può prevedere il risultato: il nuovo alunno contribuirà a far vincere la squadra di basket o rovinerà il clima in classe maltrattando i più deboli?
Un insegnante esperto direbbe che il segreto sta nelle regole: se sono attentamente calibrate, possono rendere il nuovo mix un successo, a vantaggio sia dei singoli che del gruppo. Le differenze possono arricchirlo, sostengono i “diversity manager”.
Proprio come una classe, l’Ue è destinata a diventare più grande.

È necessario sia per ragioni di sicurezza che economiche. E sarà senz’altro difficile.
Le regole sono messe a punto a sufficienza? Come può il sistema impedire che i bulli e i mistificatori prosperino? Come fare in modo che tutti si sentano coinvolti?
In questa edizione riflettiamo su queste domande - le abbiamo rivolte anche a una prima ministra, l'estone Kaja Kallas - e speriamo che il blocco europeo possa trovare presto le sue risposte condivise.
Anton Semyzhenko, caporedattore di questa edizione


UN DESTINO NEL MIO SCAFFALE PER VENT'ANNI

Nel 2004 i giornali ungheresi hanno festeggiato l’ingresso nell'Ue. Ora è un’altra storia. Foto dell'autrice del brano

BUDAPEST - “Siamo a casa”, recita la copertina ormai ingiallita e sbiadita del giornale che ho gelosamente custodito per vent'anni in una scatola dentro a uno scaffale. La data di pubblicazione - il primo maggio 2024 - è per me importante: è simbolica perché quello è stato il giorno in cui l’Ungheria è entrata nell’Unione europea; inoltre proprio allora io ho iniziato a lavorare come giornalista. Infatti, uno dei giornali che ho conservato è l’edizione speciale del Magyar Hírlap, dove ho iniziato la mia carriera come cronista di politica estera.
Sono cambiate molte cose nei vent’anni trascorsi dalla pubblicazione di quella copertina.
Tanto per cominciare, il Magyar Hírlap è stato trasformato in uno strumento di propaganda della destra, mentre il Népszabadság - l’altro giornale che ho conservato - è stato chiuso sotto la pressione del governo orbaniano.
Non è soltanto il mondo dei media, e quindi la mia professione, quella giornalistica, a essere ormai nelle mani dell'esecutivo, ma l’intera società ungherese.
Quando per le strade di Budapest vedo i manifesti ufficiali che raffigurano “Bruxelles” che lancia bombe, o la presidente della Commissione europea presentata come una marionetta della famiglia Soros, mi chiedo se la gente abbia dimenticato cosa significa far parte dell’Ue.
La propaganda del governo sta avendo un suo impatto, dal momento che in Ungheria il sostegno all’Ue è calato del dieci per cento negli ultimi anni.
Nonostante ciò, la storia di copertina di vent’anni fa all'epoca non era affatto sbagliata: l’adesione all’Ue era sentita dalla maggior parte degli ungheresi come una "rimpatriata", come tornare nella propria casa.
Per noi, l’ampliamento dell’Ue non rappresentava solamente viaggi in libertà e maggiori possibilità di lavoro all’estero, ma ci ha consentito anche di trovare il nostro posto come nazione in questa terra di confine tra Est e Ovest.
Ovviamente, l’adesione ha portato con sé anche delle responsabilità che entrambe le parti dovevano rispettare. Il punto è che essere in disaccordo su alcuni temi - che si tratti di migrazioni, agricoltura o politica estera - può essere in sé un valore aggiunto per la comunità degli europei. Ciò che non è affatto benefico, ai miei occhi, è muover guerra contro il posto al quale siamo sempre appartenuti.
Viktória Serdült è una giornalista di HVG


IL NUMERO DELLA SETTIMANA: 54,6%

PARIGI - Nel 2005 i francesi hanno respinto l’adozione della Costituzione europea con il 54,6 per cento dei voti contrari.
Il referendum avrebbe dovuto avere un esito scontato: la destra e la sinistra avevano fatto campagna per il sì, mentre solamente l’estrema destra nazionalista e la sinistra radicale si erano opposte. A far deragliare i piani di chi era favorevole è stato lo spauracchio dell'"idraulico polacco".
A un anno di distanza dalla più grande operazione di allargamento dell'Ue - perché proprio nel 2004 erano entrati la Polonia e altri paesi - i sovranisti hanno introdotto in modo martellante questa espressione nel dibattito pubblico, per alimentare così i timori verso l’immigrazione da est di europei disposti a lavorare a salari più bassi.
È stato questo uno dei principali fattori del voto per il no. Eppure, i lavoratori stranieri non c’entravano nulla con la Costituzione europea. Inoltre in Francia non è mai arrivata un’ondata di idraulici polacchi o di muratori lettoni.
Ora, alla luce di un altro possibile allargamento dell’Ue, i politici e il pubblico di diversi paesi esprimono i propri timori per i fatto che i lavoratori e le merci provenienti dai futuri stati membri dell’Ue possano inondare i mercati locali. Proprio come è avvenuto in Francia, alcune di queste paure potrebbero non realizzarsi mai.
Nelly Didelot fa parte della redazione Esteri di Libération


CARO SCHOLZ, CARA UE, PERCHÉ A NOI NIENTE CAFFÈ?

Il subdolo cancelliere tedesco ha fatto a Orbán un’offerta che non ha potuto rifiutare. Foto Michael Lucan/Wikimedia Commons

SKOPJE - Al Consiglio europeo che si è tenuto a Bruxelles a dicembre, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha tirato proprio un bel tiro mancino. Dopo un dibattito straziante circa l’avvio dei negoziati di adesione dell’Ucraina, Scholz ha invitato il suo omologo ungherese Viktor Orbán ad andare a prendersi un caffè. Appena Orbán è uscito dalla sala, gli altri stati membri hanno votato a favore dell’adesione dell’Ucraina.
Molti nel mio paese, che è la Macedonia del Nord, sono rimasti sbalorditi da questa operazione: voleva forse dire che prima non c’era stato nessuno che avesse potuto offrire un espresso freddo al primo ministro greco e al leader bulgaro, così da sbloccare questi due paesi nel loro rifiuto categorico – quasi trentennale – di consentire alla Macedonia del Nord l’apertura dei negoziati per l’adesione all’Unione europea?
È dal 2005 che siamo bloccati con lo status di paese candidato. Lo stop greco riguardo all’integrazione euroatlantica è persino più lontano nel tempo: risale ai primi anni Novanta.
Atene ha ostacolato per vent’anni le aspirazioni di Skopje per via di quella che in molti hanno descritto come una disputa “irrazionale” su un nome.
Ora, Sofia tiene a bada sia l’Albania che la Macedonia del Nord in una disputa ancora più illogica e basata su questioni storiche, linguistiche e identitarie. La Bulgaria sostiene cioè che il macedone sia un dialetto bulgaro, e che le radici del popolo macedone siano bulgare.
«L’Ue consente ai propri membri di utilizzare la loro posizione nel blocco come leva contro i propri vicini. È la cosa più antieuropea che si possa immaginare», ha detto durante la conferenza sulla sicurezza di Monaco il primo ministro albanese Edi Rama, frustrato dal fatto che anche al suo paese, che è partner della Macedonia del Nord, venga impedito di avviare i colloqui di adesione all’Ue.
Alla luce dell’aggressione di Putin, durante la quale l’Ungheria ha spudoratamente abusato del proprio diritto di veto mettendo Bruxelles a disagio e impedendole di agire, un gruppo di nove paesi ha dichiarato l’anno scorso di voler eliminare il veto dal processo decisionale relativo alla politica estera. Tra questi c’erano Germania e Francia.
Secondo questi paesi, la regola del veto ha imposto l’adozione di deboli compromessi e ha reso l’Ue inefficace sulla scena mondiale.
I candidati dei Balcani occidentali, che sono stati lasciati abbandonati a soffrire di instabilità, corruzione, populismo e influenze straniere, non hanno motivo di festeggiare.
In conformità con gli atti dell’Ue, si potrebbe rinunciare alla regola dell’unanimità in favore della maggioranza qualificata, ma ciò comporta una sorta di “paradosso del comma 22”. Allo scopo di consentire la non unanimità, Bruxelles avrebbe bisogno (avete indovinato) dell’unanimità.
E intanto il trucchetto del caffè di Scholz può funzionare soltanto una volta.
Siniša-Jakov Marusic è un giornalista di Balkan Insight


...CHE SI ESPANDA ANCHE LA DEMOCRAZIA!

Ursula von der Leyen mentre pronuncia il discorso sullo stato dell'Unione. Foto Comm. Ue

ROMA - «Le relazioni annuali sullo stato di diritto verrano estese anche ai paesi che hanno chiesto di entrare nell'Unione europea. Ciò contribuirà a metterli sullo stesso piano degli stati membri», ha annunciato Ursula von der Leyen durante il suo più recente discorso sullo stato dell'Unione.
La presidente della Commissione europea ha toccato quindi non solo il dossier dell'allargamento ma pure quello dello stato di salute democratico. Il tema è tutt'altro che marginale, visto che al momento l'Ue non riesce a far rispettare lo stato di diritto neppure tra i suoi stati membri.
Von der Leyen, che punta a un secondo mandato, ha responsabilità precise nel fallimento di cui sopra. Ha aspettato che si fossero svolte le elezioni ungheresi di aprile 2022, prima di attivare il cosiddetto "meccanismo di condizionalità" - e cioè quella leva che blocca i finanziamenti Ue in caso di mancato rispetto della rule of law - nei confronti dell'Ungheria.
Più di recente, sempre la presidente ha sbloccato dieci miliardi di fondi europei a Viktor Orbán proprio alla vigilia di un Consiglio europeo nel quale lui aveva minacciato il veto. Come se i valori democratici potessero essere negoziabili.
Se davvero l'Ue vuol mantenere un equilibrio tra aprire le frontiere e rafforzare i valori democratici, allora deve cominciare a farli rispettare anzitutto tra chi è già parte del blocco.
Francesca De Benedetti è caposervizio Europa a Domani


A COLLOQUIO CON LA PREMIER ESTONE KAJA KALLAS

“Kaitsetahe”, scritto su una felpa che la prima ministra Kaja Kallas ha regalato al presidente Zelensky durante la sua visita a Tallinn, significa “volontà di difendere”. Foto Kiur Kaasik, Delfi

TALLINN - In questo colloquio con lo European Focus, la premier estone lancia un avvertimento: «In base alla nostra esperienza, sappiamo che non sarà facile». Intende soprattutto che alcune riforme che l’Ucraina dovrà avviare per aderire all’Ue saranno impopolari nel paese.
Dove sarebbe ora l’Estonia, se non avessimo avuto la possibilità o la volontà di aderire all’Ue?
Saremmo in una posizione del tutto diversa. Anzitutto non avremmo lo stesso livello di benessere: rispetto agli anni Novanta, il valore delle nostre pensioni è aumentato di 65 volte, quello degli stipendi di 35 volte. L’altra dimensione è quella della sicurezza: l’appartenenza ha un suo effetto; in qualità di membri dello stesso club, nessuno di noi è solo. E devo dire che, a furia di incontrare così spesso gli altri leader, si diventa pure amici...
Che timori hanno questi stessi leader Ue circa l’adesione di Kiev o dei Balcani occidentali?
Qualche anno fa, parlando con il premier portoghese António Costa, l’ho sentito ricordare che, quando l’adesione di Lisbona era in programma, tra gli stati membri dell’epoca circolava lo spauracchio dell’”idraulico portoghese” (ndr: ci si riferiva alla concorrenza diretta di lavoro a basso costo). All’epoca dell’ingresso di noi estoni nell’Ue (avvenuto nel 2004 in concomitanza con quello della Polonia, ndr), il timore era quello dell’”idraulico polacco”. Ora c’è l’”idraulico ucraino”. Il fatto è che queste paure non si sono avverate, poiché la convergenza economica aumenta il tenore di vita e rende superflue le migrazioni su larga scala.
E poi ovviamente un’altra paura è quella relativa alla corruzione: il potenziale nuovo stato membro sarà in grado di mettere in pratica le riforme? Nel caso dei Balcani occidentali, c’è anche la questione della criminalità. Un altro motivo di timore è quel che vediamo oggi in Ungheria (il riferimento è anche all’utilizzo del veto da parte di Viktor Orbán in sede di Consiglio europeo, ndr). Ci si scontra molto. E se ci saranno così tanti nuovi paesi a unirsi cosa comporterà questo cambiamento per il processo decisionale dell’Ue?
Tra i leader dei paesi che vogliono entrare, c’è chi dice: saremo pronti in un paio d’anni. Ma ci sono le aspettative e le speranze della popolazione da calibrare. In che modo i politici dovrebbero mantenere un giusto equilibrio?
Il nostro processo di adesione è durato otto anni. Richiede riforme difficili, e quindi anche impopolari. E c’è bisogno che le persone comprendano che questo processo di riforma deve essere percorso in quanto è in vista di un futuro migliore. Sappiamo, in base alla nostra esperienza, che non sarà facile.
Herman Kelomees è cronista politico di Delfi


I SALUTI DEL TEAM DI EUROPEAN FOCUS

“Kaitsetahe”, scritto su una felpa che la prima ministra Kaja Kallas ha regalato al presidente Zelensky durante la sua visita a Tallinn, significa “volontà di difendere”. Foto Kiur Kaasik, Delfi

EUROPA - Per ora, questo è il nostro ultimo numero. Speriamo di ritornare in autunno, con nuovi fondi e nuove idee.
La squadra dello European Focus ha lavorato insieme nel corso degli ultimi due anni. Durante questo periodo e, soprattutto, da quando abbiamo pubblicato questa newsletter per la prima volta nel settembre del 2022, abbiamo lavorato a stretto contatto ogni settimana per uscire dalle nostre bolle informative nazionali e discutere delle nostre questioni comuni, realizzando così le nostre ambizioni dichiarate nella nostra prima edizione.
Durante i 18 mesi di produzione, quasi 80 giornalisti provenienti da 23 paesi hanno contribuito al dialogo paneuropeo.
Abbiamo avuto i nostri confronti, anche duri, e talvolta i colleghi giornalisti erano così oberati di lavoro che è stato tutt’altro che facile organizzare una routine di produzione settimanale, ogni volta con contributi da almeno cinque paesi.
Ma abbiamo anche scoperto che abbiamo molto di più in comune di quanto pensassimo.
Lavorare insieme, anche se a volte è stressante, è sempre divertente. Abbiamo avuto diversi momenti "eureka!". Le differenze ci hanno resi più forti e ci uniscono.
E soprattutto, abbiamo iniziato a parlare di “noi” invece che di “loro”. Perché ci siamo dentro tutti, insieme.
Gyula Csák, Boróka Parászka e Judith Fiebelkorn, coordinatori del Focus, a nome di tutta la squadra


Qual è la tua impressione su questo tema, e sull'esperienza dello European Focus? Ci piacerebbe riceverla, alla mail collettiva info@europeanfocus.eu se vuoi mandarcela in inglese, oppure a francesca.debenedetti@editorialedomani.it
A presto! Francesca De Benedetti


(Versione in inglese qui; traduzione di Marco Valenti)

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