Un’inchiesta di LIMINAL, Refugees in Libya e Asgi ricostruisce per la prima volta con video, chat e testimonianze una catena sistemica di espulsioni che parte da Tunisi e Algeri e spinge rifugiati e richiedenti asilo fino ad Agadez (Niger), nel Sahara. Non sono episodi isolati, ma un meccanismo transnazionale in cui, accanto agli stati, compaiono Unhcr e Oim, e che beneficia di finanziamenti europei nel solco dell’esternalizzazione delle frontiere
Dalla periferia di Tunisi al deserto del Sahara, oltre tremila chilometri di trasferimenti forzati. È il viaggio di Abdallah, sudanese con documento Unhcr, arrestato il 3 maggio 2024 durante lo sgombero del campo informale davanti agli uffici dell’Agenzia Onu e dell’Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni). Insieme a centinaia di persone è stato caricato su autobus, abbandonato alla frontiera algerina, poi ripreso, detenuto e infine deportato fino ad Agadez, nel Niger. La sua storia, ricostruita attraverso dati gps, video e chat nell’inchiesta The Deportation Chain di LIMINAL, Refugees in Libya e Asgi rivela una catena sistemica di espulsioni che attraversa l’Africa settentrionale e coinvolge governi, organizzazioni internazionali e fondi europei.
Secondo l’indagine, non si tratta di episodi isolati ma di un meccanismo transnazionale in cui Tunisia, Algeria e Niger agiscono in continuità. Il principio di non-refoulement, che vieta il respingimento verso paesi non sicuri, viene violato in modo sistematico. Persino i provvedimenti d’urgenza del Comitato Onu per i diritti umani, che ha ordinato alla Tunisia di sospendere le espulsioni e garantire protezione, sono stati ignorati. Abdallah e altri ricorrenti, tra cui alcuni minori, sono oggi ancora nel campo gestito dall’Unhcr alle porte di Agadez.
Cosa dicono i numeri
Le cifre mostrano la portata del sistema. Nel 2024 l’Algeria ha deportato oltre 30.000 persone verso il Niger, secondo le stime di InfoMigrants e Alarm Phone Sahara. L’accordo bilaterale Algeria-Niger del 2014 prevede convogli “ufficiali” per i cittadini nigerini, consegnati direttamente al posto di Assamaka. Tutti gli altri - sudanesi, ciadiani, eritrei, etiopi, ivoriani - vengono inseriti nei convogli “non ufficiali”, scaricati nel nulla al point zéro, nel deserto, e costretti a camminare per circa 15 chilometri fino al confine. Molti non arrivano vivi.
La Tunisia, dal canto suo, ha intensificato gli allontanamenti: più di 9.000 persone sono state espulse verso l’Algeria e almeno 7.000 verso la Libia nel 2024, secondo l’Organizzazione mondiale contro la tortura. Gli arresti e le deportazioni avvengono anche ai danni di rifugiati registrati e titolari di documenti Onu. I racconti raccolti dalle ong parlano di violenze, confisca dei telefoni, detenzioni arbitrarie e abbandoni di famiglie con bambini in zone di frontiera prive di acqua e cibo.
Niger, Algeria e Tunisia diventano così gli ingranaggi di un confine mobile, spostato sempre più a sud, dove la frontiera europea si misura in chilometri di sabbia e in corpi esausti.
L’abrogazione della legge 36/2015 in Niger, dopo il colpo di stato del 2023, ha modificato gli equilibri costruiti con l’Unione europea. Quella norma, che criminalizzava il traffico di migranti, era il pilastro della cooperazione di sicurezza con Bruxelles. La sua cancellazione ha riaperto i flussi nord-sud e reso più opaca la gestione delle deportazioni. I governi di Algeri e Tunisi hanno reagito moltiplicando i respingimenti, mentre i programmi di “rimpatrio volontario” finanziati dall’Ue e gestiti da Oim e Unhcr continuano a funzionare come estensione dei dispositivi di controllo.
Il campo di Agadez, aperto nel 2018 con fondi europei e italiani, ospita oggi circa duemila persone. Le immagini raccolte da Refugees in Libya e LIMINAL mostrano tende logore, proteste quotidiane, mancanza di cibo e assistenza sanitaria. Il rapporto Book of Shame di Refugees in Libya descrive il centro come «campo di detenzione nel deserto», un luogo dove l’attesa per l’asilo può durare anni e dove la cooperazione europea si traduce in immobilità forzata.
I fondi europei
L’Unione europea sostiene di voler «salvare vite» e «gestire le frontiere». In realtà finanzia e addestra gli stessi apparati che producono deportazioni e abbandoni. Dal 2016, attraverso il Fondo fiduciario per l’Africa e i programmi IcSP e NDICI-Global Europe, Bruxelles ha stanziato centinaia di milioni di euro per progetti di controllo migratorio in Tunisia, Algeria e Niger. Le inchieste di Irpi Media e Border Forensics mostrano che questi fondi alimentano invece una filiera di repressione, detenzione e rimpatrio, formalmente distinta dai respingimenti ma sostanzialmente identica nei risultati.
La catena delle deportazioni documentata da LIMINAL è la manifestazione più evidente di questa politica: un sistema che parte dai centri urbani del Maghreb, attraversa prigioni e checkpoint e termina nel deserto. Ogni anello - dalle forze di sicurezza ai convogli militari, dai campi “umanitari” alle agenzie internazionali - agisce dentro un quadro di complicità che scarica sugli stati africani la violenza del controllo europeo.
Finché i fondi comunitari non saranno vincolati a garanzie verificabili - accesso legale alla protezione, monitoraggio indipendente, stop agli abbandoni nel Sahara - l’Europa continuerà a spingere la sua frontiera sempre più a sud, pagando semplicemente perché la violazione dei diritti avvenga lontano dagli occhi dei suoi cittadini. E così nascondere diventa più importante che proteggere.
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