La giovane coppia, i due pensionati, la donna single. Il profilo di chi ha accolto migranti in fuga da guerre e fame è vario. Hanno sfidato così lo slogan sovranista “accoglieteli a casa vostra”
Quando Marco e Federica hanno deciso di accogliere Moussa a casa loro, il figlio più piccolo, Tommaso, 7 anni, non era del tutto convinto. A novembre 2023, il primo incontro con lui e la sorella Emma, poco più grande, ha cambiato le cose: «Ogni sera a tavola mangia tra loro due perché lo hanno voluto in mezzo e Tommaso si sposta con la sedia per stargli più vicino», racconta Marco.
Lui e sua moglie credono che accogliere una persona rifugiata possa dare ai loro figli «la possibilità di guardare cosa c’è fuori». «Siamo in un periodo storico che ci chiede di essere parte attiva nella società», aggiunge Marco.
«Per i nostri figli»
Moussa è originario del Niger, ha 21 anni ed è arrivato in Italia via mare quando era minorenne. Gli è stata riconosciuta la protezione internazionale e oggi vive a Pesaro con Marco, Federica e i loro due figli.
Come lui, chi termina il percorso all’interno del sistema di accoglienza spesso ha ancora bisogno di supporto per inserirsi nella società. L’organizzazione Refugees Welcome aiuta i rifugiati a incontrare persone che vogliano offrire questo tipo di sostegno attraverso l’ospitalità.
«Siamo convinti che non ci possa essere una reale inclusione se non si creano delle relazioni tra la comunità ospitante e chi arriva nel nostro paese – spiega Sara Consolato, referente del progetto – Per una persona migrante vivere con qualcuno del posto vuol dire avere un accesso privilegiato alla cultura, alle usanze, migliorare l’italiano e poter creare dei legami, ma anche riacquistare autonomia».
I rifugiati sul territorio nazionale accolti in famiglia tramite Refugees Welcome sono circa un centinaio, a fronte di quasi 9.500 persone migranti a cui è stata riconosciuta la protezione internazionale solo nel 2024. Provengono soprattutto da Africa occidentale, Corno d’Africa, Medio Oriente e Afghanistan, che abbandonano per motivi di persecuzione personale, conflitti o perché alla ricerca di condizioni di vita migliori.
Dopo gli incontri formativi e l’accompagnamento verso la convivenza forniti dall’organizzazione, l’ospitalità in famiglia dura almeno sei mesi. Gli effetti dell’accoglienza, in questo periodo, sono trasversali.
Per Marco anche l’identità della sua famiglia è cambiata: «Quando fai ospitalità in un quartiere di provincia come il nostro ti esponi a dare un messaggio. A volte questo ha creato distanza, altre curiosità, pochi ci hanno detto che stavamo sbagliando. Moussa mi ha chiamato “baba” (“papà” in nigerino) fin dall’inizio e io sono molto orgoglioso di essere diventato padre di questo ragazzo».
La coppia di pensionati
Moussa lavora in un’azienda e sta prendendo la patente. Come lui Barak, rifugiato politico afghano accolto da Maurizio e Chiara, una coppia di pensionati del mantovano.
La loro scelta nasce dalla possibilità di offrire aiuto e dalla volontà di dare una testimonianza: «Barak è arrivato in città nascosto sotto un camion, perché non aveva alternative. Dopo essere uscito dal sistema di accoglienza aveva bisogno di sostegno e ci siamo trovati. Pensavo sarebbe stato più complicato vivere insieme, ma il rapporto che abbiamo costruito è molto positivo e fa bene a entrambi», racconta Maurizio.
«Attorno a noi le reazioni sono state diverse: i nostri vicini si sono incuriositi, l’hanno invitato a mangiare da loro. E una famiglia di conoscenti ci ha detto che vorrebbe fare la nostra stessa esperienza», dice Chiara.
La convivenza prosegue da un anno e mezzo e adesso Barak sta cercando una casa propria. «Mi sento pronto, i problemi principali che ho dovuto affrontare nella mia vita sono quasi finiti: imparare l’italiano, la cultura, lavorare, poter vivere qui, ora è possibile», spiega Barak.
È partito a 13 anni dall’Afghanistan su un furgone, ha attraversato da solo l’Iran, il Pakistan e la Turchia poi la Grecia, prima di arrivare in Italia attraverso la rotta balcanica. «Vengo dall’altra parte del mondo e con Maurizio e Chiara abbiamo tante differenze, ma mi hanno accolto come un figlio e condividiamo tutto come una famiglia». Dei suoi primi anni in Italia ricorda il senso di smarrimento quotidiano, che ora sta imparando ad affrontare.
Per Feven, giovane studentessa etiope, l’incontro con Giovanna è stato fondamentale per uscire dalla solitudine e trovare sostegno in una fase delicata della sua vita. Quando è arrivata in Italia, grazie a una borsa di studio assegnata dall’Università Ca’ Foscari di Venezia, era incinta. Vive con Giovanna da ottobre 2023 e nel frattempo è nata Afkin.
Prima di ospitare loro due, Giovanna, insegnante di Mestre, ha accolto in casa altri rifugiati: «Le persone che migrano sono portatrici di sogni e progetti». La motivazione che l’ha spinta in questo caso a condividere la propria casa con Feven è legata a un’esperienza comune: «Come lei anche io ho vissuto un’esperienza di maternità da sola, quindi mi sono sentita di dare la mia disponibilità».
Oggi Feven dice di aver trovato una nuova famiglia: «Giovanna soprattutto, ma non solo. Ci sono tante nonne adottive che si prendono cura ogni giorno di mia figlia permettendomi di seguire i corsi».
Un giorno spera di poter far conoscere Afkin al padre, rimasto a lavorare in Etiopia. Intanto sta scoprendo l’Italia e progetta di trovare un lavoro. Per Giovanna, l’incontro con lei ha rafforzato la scelta fatta alcuni anni fa: «In un mondo che sembra diventare peggiore, preferisco questa quotidianità».
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