La nomina entro 48 ore diventa l’ennesima promessa tradita dal presidente. Il nome del primo ministro arriverà venerdì mattina, promette l’Eliseo. E quanto durerà? I precedenti hanno retto sempre meno. Il tema ormai non è più solo l’insostenibile leggerezza dell’essere premier in Francia, ma la caducità di una democrazia presa in ostaggio dal presidente
Non mi dimetto, niente presidenziali anticipate. Sciogliere l’assemblea di nuovo? Non se ne parla: tutto terrà fino al 2027, aveva detto in queste settimane il presidente francese. Ma più il tempo passa, più si affollano le promesse tradite, e i francesi che aspettavano l’annuncio del nuovo premier sul tg dell’ora di cena trovano invece un affollarsi di commentatori che mettono in discussione «la credibilità» di Macron.
Noto per le procrastinazioni che hanno trascinato il paese in un critico stallo politico per tutta l’estate, questo giovedì il presidente è venuto meno anche all’annuncio di un nome che rimpiazzi Michel Barnier. «Entro 48 ore», aveva detto l’Eliseo, informando poi di un rientro anticipato di Macron dalla Polonia. Ma niente: sono già scadute. Il nome verrà diffuso venerdì mattina, è la nuova promessa. I rinvii sono il sintomo della complessità dell’operazione politica – che Macron come sempre subordina alla propria strategia – e della sua debolezza.
I profili chiacchierati si affollano, dall’eternamente rumoreggiato François Bayrou – ostacolato però da destra e da sinistra, da Nicolas Sarkozy alle spalle e da Olivier Faure a portata di telecamera – passando per l’inossidabile ministro della Difesa Sébastien Lecornu; dall’hollandiano Bernard Cazeneuve, con una storia socialista e un profilo che però manderebbe in crisi la sinistra stessa, a Roland Lescure, che nella biografia oltre al ruolo di ministro ha quella di finanziatore di Macron. Qualunque sia il nome che verrà annunciato (forse) nelle prossime ore, i pregressi suggeriscono che sia destinato a vita breve.
La caducità dei premier
Già con il ciclo iniziato nel 2022, e ancor più visibilmente dopo le ultime elezioni legislative della scorsa estate, la fragilità e la caducità dei primi ministri francesi è andata di pari passo con le forzature antidemocratiche operate da Emmanuel Macron. Basti analizzare le ragioni per le quali sono finiti i mandati di Élisabeth Borne, Gabriel Attal e Michel Barnier.
Quando Borne viene nominata, il macronismo attraversa già una fase declinante; infatti la prima ministra può contare soltanto su una maggioranza relativa. Emmanuel Macron, che aveva iniziato la sua ascesa politica facendo l’acchiappa-tutto (attirando cioè centristi da sinistra e da destra), ha prodotto con le sue politiche neoliberali un esito opposto: la polarizzazione a destra e a sinistra. In questo contesto di impopolarità, Borne spinge – a sua volta spinta dall’Eliseo – riforme ancor più impopolari; quella sulle pensioni diventa il simbolo della distanza siderale tra politiche e consenso. All’epoca non ci sono i numeri per sfiduciarla, ma la premier paga comunque nel medio termine la sua scelta di attuare la riforma delle pensioni scavalcando l’aula (con la leva dell’articolo 49.3); come se non bastasse, con Borne viene sdoganata una legge sull’immigrazione che coi suoi sconfinamenti verso l’estrema destra crea tensioni pure tra i macroniani stessi.
Una volta portata a termine l’operazione, è Macron stesso a liquidare la premier. Formalmente si dimette lei, a gennaio, ma la volontà politica è del presidente. Con l’orizzonte delle europee, affida al suo clone Gabriel Attal – all’epoca con gradimento in crescita – la premiership e un compito illusionistico: riportare i francesi ai miraggi del 2017, quando Macron era riuscito a illuderli che sarebbe stato lui l’argine all’estrema destra, fagocitando pezzi di destra e sinistra dentro il suo nuovo polo di attrazione. Non a caso, nel conferirgli l’incarico, Macron invoca «fedeltà allo spirito del 2017», un «progetto di riarmo e rigenerazione». Ma l’illusione si infrange sui risultati delle europee: con Valérie Hayer capolista, i macroniani incassano la débâcle e il presidente gioca d’azzardo: in tutta fretta scioglie l’aula.
Sacrifica Attal per la propria strategia, ancora. «Non ho scelto la dissoluzione ma non l’ho subita», dirà lui, che dopo le dimissioni guadagnerà comunque uno spazio ingombrante: è oggi sia capogruppo in aula che segretario generale di Renaissance. Dura 603 giorni Borne, 240 Attal, e ancor meno – 98 – Michel Barnier, la cui nomina esprime la forma più alta di negazione democratica da parte del presidente della Repubblica: rifiuta di riconoscere la predominanza in aula del Fronte popolare e assegna l’incarico a un repubblicano (premier di minoranza quindi) dopo aver stretto un patto di non belligeranza con l’estrema destra, contro la quale i francesi avevano fatto argine al momento del voto. Se Borne e Attal erano caduti per ragioni di opportunità di Macron, Barnier cade anche per quelle di Marine Le Pen. Il tema ormai non è più solo l’insostenibile leggerezza dell’essere premier in Francia, ma anche la caducità di una democrazia presa in ostaggio dal presidente.
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