I tedeschi, si sa, hanno un debole per il solenne: in un tiepido pomeriggio di fine ottobre, il presidente Frank-Walter Steinmeier ha convocato le telecamere della tv pubblica alla sua residenza di Castello Bellevue per comunicare ai concittadini – e al mondo – che la Germania è sprofondata in una drammatica crisi esistenziale, di sicuro la più gravosa dai tempi della guerra fredda. Una «svolta epocale», l’ha chiamata il capo dello stato tedesco nel discorso definito dall’emittente Ard “sullo stato della nazione”, verso un «nuovo tempo che è una sfida per ciascuno di noi: la Germania deve chiedersi oggi cosa è pronta a dare. Sì, nei prossimi anni dovremo accettare dei sacrifici».   

Crollo delle certezze

Inflazione a due cifre (stiamo parlando del massimo picco dal 1951 ad oggi), la guerra in Ucraina che destabilizza decenni di politica estera tedesca, la crisi energetica materializzatasi anche plasticamente nelle gigantesche falle nei gasdotti Nord Stream 1 e 2, la necessità di violare il dogma del pareggio in bilancio nei conti pubblici, il vicolo cieco nei rapporti con Mosca e Pechino (ossia i pilastri sui quali è costruita la potenza economica tedesca): il fatto è che sembrano franare tutte insieme e tutte contemporaneamente quelle che erano certezze della Germania dal crollo del Muro ad oggi.

Obbligando la “locomotiva d’Europa”, la quarta potenza economica al mondo in termini di Pil nominale, ad una vorticosa autocoscienza collettiva nonché ad un drastico cambio di passo strategico e geopolitico. Insomma, a ripensare il proprio ruolo nel mondo.

La Germania ha «il vento contrario», «arrivano anni più duri, anni ruvidi», mentre «i dividendi della pace sono consumati», così diceva Steinmeier, arrivando anche ad ammettere i «fallimenti, anche miei» nel portare avanti la dottrina del filo rosso con Mosca finanche quando le derive del putinismo si palesavano ogni anno di più.

Sospirava, il presidente, quando affermava che sono finiti i tempi in cui «eravamo circondati da amici e la guerra in Europa sembrava inconcepibile», i tempi in cui la Germania, un paese dalla «storia oscura», era riuscita a «crescere nel benvolere della comunità internazionale, diventando un’economia forte dotata di forti relazioni in tutto il mondo, lavorando per la pace ed il benessere, nel rispetto delle regole».

Una Germania, dicono i manuali sui passaggi cruciali del “secolo breve”, che aveva saputo elaborare con difficoltà ma anche con coraggio l’orrore del nazismo e che aveva saputo “diventare grande” con la Ostpolitik di Willy Brandt, assurgendo a crocevia del dialogo tra est e ovest negli anni della guerra fredda, tanto da preparare il terreno alla rivoluzione pacifica che portò alla caduta del Muro di Berlino.

Appello ignorato 

Il presidente Frank-Walter Steinmeier (Bernd von Jutrczenka/picture-alliance/dpa/AP Images)

Stranamente il mondo ha preso solo distrattamente nota dell’appello del presidente tedesco, che in effetti segna una presa di coscienza non proprio frequente nell’autonarrazione tedesca. Va detto che la stampa internazionale ci mette del suo: Jeremy Stern, sul magazine israeliano Tablet, ritiene che si stiano materializzando «i peggiori incubi del gigante addormentato d’Europa», con il rischio che si realizzi «una vera tragedia» per l’occidente.

Da una parte la Germania tra tentennamenti e messaggi confusi viene accusata d’essere l’anello debole nei confronti del Cremlino, dall’altra parte è finita in un corto circuito che rischia di incrinare la quadratura fatta di coesione sociale, sistema di welfare, esportazioni competitive, bassa disoccupazione. Detto in altre parole: la guerra in Ucraina sta minando le basi di un sistema economico fondato sulla fornitura teoricamente infinita di gas russo a basso prezzo, le formidabili catene di approvvigionamento cinesi, l’apparente espansione senza fine dei mercati mondiali.

Una «pacifica nazione esportatrice», la definisce il New York Times, «fondata sull’import di gas russo e l’export senza fine verso il suo maggiore partner commerciale, la Cina». Ovvio che il possibile testa-coda del “System Deutschland” sia destabilizzante per i tedeschi, oggi che la Germania può toccare con mano le implicazioni dell’invasione russa: il fermo dei gasdotti Nord Stream – che obbliga Berlino non solo a cercare accordi in Arabia Saudita, nel Qatar e negli Emirati, ma a prolungare la vita delle ultime due centrali atomiche tedesche, contravvenendo all’uscita dal nucleare inaugurata undici anni fa da Angela Merkel – è la plastica rappresentazione di quanto fosse colossale l’errore di rendersi iperdipendenti dal gas di Mosca, con Vladimir Putin che mostra ad ogni passaggio di voler usare le pipeline nel Mar Baltico come strumento di pressione, per non dire come un’arma, nello scacchiere europeo.

Relazioni pericolose

Il cancelliere tedesco Olaf Scholz con il presidente cinese Xi Jinping (Kay Nietfeld/Pool Photo via AP)

Non solo: mentre la stampa mondiale e buona parte della classe politica tedesca (compresi coloro che negli anni passati sono stati del tutto silenti sul tema) continuano a chiedersi come sia stato possibile tuffarsi a capofitto in una colossale trappola come quella targata Nord Stream, lo psicodramma si ripete in tutto e per tutto per quanto riguarda i rapporti con la Cina.

Ancora prima che Olaf Scholz si recasse a Pechino per quella che i suoi uffici hanno definito “la gita di un giorno”, da ogni angolo si ricorda a Berlino quant’è stretta la via di una ridefinizione dei rapporti con l’autocrazia di Xi Jinping.

Finanche i servizi segreti avevano provato ad avvertire il cancelliere: «La Russia è la tempesta, la Cina è il cambiamento climatico», ripeteva dolente Thomas Haldenwang, il numero uno dell’intelligence “interna” tedesca, insistendo in un’audizione al Bundestag che «non possiamo permettere una situazione nella quale lo stato cinese possa influenzare gli eventi politici tedeschi».

Incalza Norbert Röttgen, ex presidente della commissione Esteri nonché esponente di spicco del partito cristiano-democratico all’opposizione: «Nessun paese deve cambiare quanto la Germania: abbiamo bisogno di un modello di crescita privo di dipendenze geopolitiche».

Ancora più esplicita, ai limiti del fuoco amico, la ministra degli Esteri, la verde Annalena Baerbock: «Con ogni investimenti nell’infrastruttura critica tedesca, dobbiamo chiederci cosa questo possa significare nel momento in cui la Cina si oppone a noi come democrazia e come comunità di valori».

Il problema, come tante volte accade, sono i numeri: oltre un milione di posti di lavoro tedeschi dipende dalla Cina, mentre viene dalla Germania il 50 per cento degli investimenti europei nella Repubblica popolare, senza considerare che il settore manifatturiero si fonda in gran parte su lunghi tratti della catena di approvvigionamento cinese. Come non bastasse, l’industria tedesca conta sulla Cina per le materie prime e le tecnologie necessarie per la transizione ad un’economia verde, tanto sbandierata negli ultimi anni, e a maggior ragione dal governo “semaforo” composto dai socialdemocratici di Scholz con i Verdi e i liberali. Infine, come dice un vecchio adagio, «in Cina circolano più automobili tedesche che in Europa»: Volkswagen, Daimler e Bmw vendono più veicoli alla Cina che nel resto del mondo.

Emblematica la vicenda della partecipazione della società cinese Cosco nel porto di Amburgo, che ha già procurato un’infinità di polemiche a Scholz nonché il parere negativo di ben sei ministeri: un porto strategico non solo per la Germania, ma per l’Europa intera, come gli ha ricordato sempre la verde Baerbock.

Indipendenza lontana

The Associated Press

Allora, com’era la storia del «rendersi indipendenti» sotto il profilo energetico nonché economico dalle grandi autocrazie, ribadito varie volte dallo stesso cancelliere? Sembra quasi una nemesi tedesca, stereotipi compresi: con insistenza si torna a parlare di «egemonia riluttante» a fronte di quelli che appaiono come cervellotici tentennamenti di Olaf Scholz riguardo alle forniture di armamenti all’Ucraina, con la Germania che sembrerebbe essersi giocata ancora una volta quella leadership europea agguantata da Merkel con il lancio del Recovery Fund nel pieno della pandemia, così come torna ad echeggiare il tormentone della “German Angst”, la paura tedesca, di fronte alle bollette e ai prezzi impazziti, di fronte ad una probabile recessione, che porterà con sé «un calo di benessere che potrebbe essere permanente» a causa del tracollo dei consumi (così profetizzano i principali istituti di ricerca economica).

Un orizzonte da incubo che ha spinto il governo federale a varare uno scudo da 200 miliardi di euro (più o meno quanto l’intera cifra concessa all’Italia con il Pnrr) volto sostenere «le famiglie e le imprese» di fronte all’impatto di una inflazione che sfonda il tetto del 10 per cento.

Una misura-monstre che ha avuto però uno sgradevole effetto collaterale: quello di incappare per l’ennesima volta nelle polemiche, nella diffidenza e nella stizza dei partner nell’Ue, che di nuovo accusano Berlino di «correre in solitaria» invece di lavorare per la concertazione europea. «Ci troviamo nel pieno di una guerra dell’energia, sono in gioco benessere e libertà», aveva provato a giustificarsi preventivamente il ministro alle Finanze Christian Lindner, ma sono parole che fotografano il senso d’emergenza che agita i sonni dei tedeschi.

Crisi d’identità

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Peccato che nonostante “scudi” da 200 miliardi, l’invio di faraonici sistemi di difesa aerea a Kiev e le dichiarazioni imponenti sulla solidarietà europea, ad oggi il governo federale non sembra capace di scacciare l’aura di incertezza che l’avvolge da quando Putin ha varcato il Rubicone di sangue ucraino facendo a pezzi i già fragili equilibri geopolitici globali: in parte è anche comprensibile, considerando che, dal fatidico 1989 in poi, «la Germania aveva costruito il proprio ruolo nel mondo basato sull’assunzione che la sicurezza fosse fondata più sul dialogo ed il confronto dialettico che sulla difesa», come sostiene su Politico l’ex ambasciatore statunitense presso la Nato, Ivo Daalder, che non esita a parlare di «una profonda crisi d’identità» del paese di Goethe, Beethoven e Hegel.

Ormai non c’è analista politico che non veda drammaticamente inabissata la strategia perseguita da Angela Merkel nei suoi sedici anni alla cancelleria: quella di una Germania che si proponeva come forza bilanciatrice tra gli Stati Uniti sempre più nervosi e instabili sul fronte interno (vedi alla voce Trump), una Cina in costante crescita con un mercato considerato il viatico per un avvicinamento reciproco ed una Russia che alla lunga sarebbe stata convinta con le buone a stabilizzarsi: ebbene, già decisamente minato dall’annessione della Crimea del 2014, da due attacchi hacker al Bundestag, dalle continue tensioni a causa delle operazioni degli 007 russi sul territorio tedesco, con l’aggressione all’Ucraina il piano merkeliano sembra definitivamente consegnato alla storia.

Una delle principali cartine di tornasole è la difesa: di vocazione pacifista come risposta dolorosa agli orrori del Terzo Reich e con il mantra del dialogo come strada maestra nella risoluzione dei conflitti, nelle decadi passate la Germania ha garantito una spesa per la difesa inferiore a quella richiesta con insistenza dagli Usa e dagli Alleati (il fatidico 2 per cento del Pil, raggiunto l’ultima volta nel 1991).

Anche questo è cambiato vorticosamente dopo lo shock ucraino: è la famosa “Zeitenwende”, la nuova epoca evocata da Scholz, che ha annunciato un investimento di 100 miliardi di euro per ricostruire armamenti ed equipaggiamenti della Bundeswehr, le forze armate tedesche, con annesso una maggiore “assunzione di responsabilità” della Germania nella sicurezza del vecchio continente in ambito Nato.  

Paure che tornano

(Sebastian Willnow/picture-alliance/dpa/AP Images)

In tutti questi turbamenti e cambi di rotta, a maggior ragione sono sembrati un po’ paradossali quest’anno i festeggiamenti per i 32 anni dalla riunificazione della Germania, le celebrazioni della rinascita tedesca iniziata con le folle incredule che attraversavano il Checkpoint Charlie e gli altri varchi della capitale spaccata in due a certificare la fine di un mondo fondato sui blocchi contrapposti, un’unità costruita a tempo record dopo lo sbriciolamento del Muro, una rigenerazione quasi miracolosa che per decenni è stata sinonimo della speranza di un mondo migliore.

Paradossale perché oggi la Germania è tornata ad avere paura, gonfiando i consensi dell’Afd, il partito dell’ultradestra – nonostante le lacerazioni interne, gli scandali su presunti fondi neri e l’“attenzionamento” da parte dei servizi segreti - che nei sondaggi è arrivato a toccare il 14 per cento dei consensi: è il risultato migliore da anni per l’Afd, che in diversi Länder dell’est, a cominciare dalla Turingia, svetta nelle preferenze degli elettori.

A bordo campo aspettano anche i cospirazionisti dei “Querdenker”, in marcia insieme a frange di estrema destra e gruppi di estrema sinistra, ognuno a suo modo pronto a raccogliere il dividendo dei cittadini impauriti: nelle piazze si è già avuto qualche assaggio. Senz’altro il solenne Steinmeier, nel suo discorso sui prossimi «anni ruvidi» della Germania, pensava anche a loro.

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