Discrezione e rispetto del lutto aveva chiesto la famiglia di Nahel per il funerale musulmano a Nanterre, ieri, del diciassettenne ucciso da un agente. Giornalisti invitati a non presenziare, niente telecamere accese, molti giovani vestiti con l'abito tradizionale arabo, a rivendicare con fierezza le origini. Un modo per ribadire che proprio per quell'identità ereditaria sono le vittime privilegiate degli eccessi delle forze dell'ordine, come hanno scritto nei cartelli delle manifestazioni: «Il 90 per cento delle persone uccise dalla polizia è non-bianco», «la polizia è razzista e uccide dei bambini», «sciogliere la polizia razzista, coloniale, capitalista e patriarcale». E ovviamente «giustizia per Nahel».

Che – si teme – non arriverà, nonostante il suo assassino sia stato arrestato per omicidio volontario, troppo evidente la colpa che si era tentato all'inizio di occultare ma emersa lampante dal video di un passante. Non si è trattato di legittima difesa. Il presidente Emmanuel Macron, che ha dovuto annullare la visita in Germania, lo ha riconosciuto quando ha definito l'omicidio “ingiustificabile”.

Ora si trova a dover arginare le violenze altrettanto inaccettabili, che da cinque giorni hanno infiammato le banlieue dell'intera Francia, da nord a Marsiglia. È stretto tra una destra che difende la polizia e vorrebbe sia proclamato L'état d'urgence, lo stato di emergenza (provvedimento adottato l'ultima volta il 15 novembre 2015, dopo gli attentati jihadisti del Bataclan, e la penultima nel 2005 per la precedente rivolta nelle periferie), e una sinistra che si oppone alla misura estrema. Macron ha mandato 40mila agenti nelle strade per sedare una ribellione che evidentemente covava, Nahel è stata la scintilla capace di far esplodere il malcontento diffuso.

Cosa è cambiato

La storia delle banlieue è del resto una storia di sommosse, fin dalla prima metà del secolo scorso quando sorsero a far da cintura alle grandi città ed erano abitate da operai spesso protagonisti di lotte politiche e sindacali. Ma è nel secondo dopoguerra che bisogna rintracciare l'origine dei problemi irrisolti fino ai nostri giorni. La massiccia immigrazione di magrebini attirati dalle grandi fabbriche (a Nanterre, per esempio, la Citroen) ha cambiato il tessuto sociale.

La Francia ha creduto di poter gestire il fenomeno grazie al suo sistema di integrazione definito “assimilazionista”, cioè se vivi sul nostro territorio sei francese con uguali diritti e doveri, in contrapposizione al sistema “comunitarista” inglese dove gli immigrati creavano aree omogenee a seconda dei Paesi di provenienza e dove potevano continuare a vivere secondo i loro usi e costumi. L'ascensore sociale in una comunità in teoria egualitaria si sarebbe occupato di favorire la promozione e la mescolanza. In parte funzionò almeno per le prime generazioni che trovarono un lavoro, in qualche caso cambiarono status, poterono realizzare il sogno di essere “come i francesi”.

Già alla fine degli Anni Settanta si intuì che qualcosa non stava funzionando e che quegli enormi agglomerati di case avevano bisogno di essere ripensati causa il rischio di creare quei ghetti “comunitaristi” all'inglese tanto aborriti (“communautarisme” in francese è una parola spregiativa). Il ministro Barros nel 1977 avviò un piano di sostegno dal titolo “habitat et vie sociale”, più tardi con Mitterrand furono lanciate almeno quattro leggi per favorire la coesione sociale. Non funzionarono se nel 1995 Chirac annunciò un piano Marshall per le banlieue allo scopo di comporre quella che già allora veniva definita come una “frattura sociale”.

Nel frattempo era terminato il trentennio d'oro dell'economia e l'inizio della conseguente crisi favorì un'ulteriore divaricazione tra francesi bianchi e non bianchi. Gli immigrati di seconda generazione sentirono tradita la promessa di essere alla pari agli altri, tanto più perché emergeva una destra estrema e xenofoba che aumentava il proprio consenso al grido “prima i francesi”. Un film del 1995, L'odio di Kassovitz, fotografò impietosamente quanto si tendeva a occultare. In banlieue, con una disoccupazione al 60 per cento tra le fasce giovanili, si sopravviveva grazie a una microcriminalità che si espandeva fino a diventare macro tra traffici illegali, soprattutto droga, persino armi. La tanto ricordata ribellione del 2005 fu l'ultima in cui la rivendicazione era quella di essere “più francesi”.

Poi, perdute le illusioni che potesse succedere, è come se si fosse sancito, definitivamente, che esistono due France, quella dei centri e quella delle periferie. Dove le forze dell'ordine (che, secondo un sondaggio al 60% votano estrema destra) potevano godere di una sorta di salvacondotto non ufficiale per le vie spicce. Nelle banlieue arrivarono predicatori fondamentalisti che favorirono repentine radicalizzazioni di giovani che, senza alcuna identità precisa, si aggrappavano a quella dei padri. In 1500 partirono per l'Iraq e la Siria, la terra del paradiso promesso dello Stato islamico, altri coprirono con l'omertà i covi degli attentatori di Charlie-Hebdo come del Bataclan. Passata l'ubriacatura islamista è rimasta la fatica del campare. L'omicidio di Nahel ha tradotto la fatica nell'azione violenta.

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