La difesa comune europea, per come è intesa e realizzata finora, va a vantaggio di pochi colossi, primo fra tutti l’italiana Leonardo. L’analisi che viene presentata oggi dallo European network against arms trade, e che Domani ha letto in anteprima, mostra che circa il 70 per cento dei fondi Ue a sostegno dell’industria militare si concentra sulla Francia (il 26 per cento), su Germania, Italia e Spagna; la metà degli stati membri dell’Unione europea ricevono meno dell’un per cento. I giganti dell’industria bellica dei quattro paesi più sovvenzionati coordinano anche il 68 per cento dei progetti. Leonardo, che è la più grande azienda a produzione militare dell’Ue, è anche il principale destinatario singolo dei fondi; dopo di lei, altri big come la spagnola Indra, le francesi Safran, Thales e la multinazionale Airbus. La guerra in Ucraina è il catalizzatore di una corsa al riarmo che plasmerà l’Europa per i prossimi anni. Riguarda sia i governi, con capitali come Berlino e Roma che puntano all’aumento delle spese militari, sia le istituzioni europee. Oggi Bruxelles rimpolpa la “peace facility” per l’invio di armi all’Ucraina; in un futuro prossimo ripenserà la propria architettura in modo da dedicare una fetta importante del suo bilancio alle spese militari. A maggio l’Europarlamento proporrà l’avvio di una convenzione, preludio di una riforma dei trattati, anche per ridisegnare il capitolo della difesa.

Proprio durante un’altra convenzione sul futuro dell’Europa, vent’anni fa, è iniziata l’intensa attività lobbistica dell’industria militare per ottenere fondi europei. I dati raccontano che l’operazione è andata in porto. Ora la guerra in Ucraina è un ulteriore spartiacque. Il segnale arriva anche dalla borsa: i prezzi delle azioni di Leonardo schizzano da circa sei euro il giorno prima dell’invasione a quasi dieci lunedì.

Le lobby e le svolte

Il ruolo dei colossi dell’industria militare nel processo di militarizzazione dell’Unione accompagna tutti i passaggi cruciali. Nel 2002 ci sono soprattutto lobbisti del settore a chiedere la creazione di un’agenzia europea per la difesa. Ed effettivamente nasce, «al 95 per cento identica a come l’avevamo chiesta», racconterà poi Michel Troubetzkoy, che è stato lobbista di Airbus. «Abbiamo organizzato una cena e ho chiesto personalmente a Valéry Giscard d’Estaing di dare nuovo impeto alla difesa con un’agenzia dedicata». Il legame stretto tra l’agenzia e i giganti dell’industria militare è tracciabile anche dai casi di porte girevoli: lo scorso luglio, la mediatrice europea (“ombudsman”) Emily O’Reilly è dovuta intervenire per chiarire all’agenzia di difesa che non avrebbe dovuto consentire al suo ex direttore esecutivo di diventare poi consulente strategico di Airbus. Un simile intreccio di interessi industriali e scelte politiche si riscontra anche nella nascita del fondo europeo di difesa. Il 2015 è l’anno decisivo: le dieci più grandi compagnie di armamenti, e il loro esercito di lobbisti, intrattengono oltre 300 incontri con la Commissione europea. Quello stesso anno, Bruxelles formalizza un «gruppo di personalità» sulla ricerca per la difesa, che dovrebbe suggerire come usare i fondi. Ma a svolgere l’operazione, nel gruppo assieme ai politici, ci sono quelle stesse aziende (Leonardo, Airbus, Bae, Mbda, Indra, Saab, Asd) che poi beneficeranno dei fondi. Nel 2016 la Commissione propone effettivamente il fondo europeo della difesa, in quello stesso anno la spesa per attività lobbistica di Leonardo ha un’impennata. Le dieci big del settore investono in influenza: Airbus all’epoca un milione e mezzo. La cifra dei suoi incontri con il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker sfiora i 160.

Tracciare i soldi europei

Il varco per una politica comune di difesa si apre dal 2009 con il trattato di Lisbona, ed è giustificato anzitutto come investimento in ricerca e sviluppo industriali. «Serve un’industria forte e competitiva, solo così avremo autonomia strategica», dice Juncker nel 2016: parole che ricordano quelle, più recenti, di Emmanuel Macron. Oggi il fondo europeo di difesa, avviato dalla Commissione sei anni fa, fa un salto di livello: i primi programmi non arrivavano al miliardo di euro, mentre il fondo 2021-2027 ha una dotazione di otto miliardi «per ricerca e sviluppo di prodotti militari». Per un’analisi piena del fondo da qui al 2027 è presto. Il report di Enaat su «come l’Ue sta alimentando una corsa agli armamenti» prende in esame i progetti pilota: i 90 milioni dell’«azione preparatoria per la ricerca sulla difesa» (Padr) dal 2017 al 2019, e il mezzo miliardo del «programma europeo di sviluppo industriale della difesa» (Edidp) 2019 e 2020. I principali beneficiari sono Leonardo (23,6 milioni), la spagnola Indra (22,8) e la francese Safran (22,3). Se si considerano pure le sussidiarie, Leonardo, Thales e Airbus ricevono più di quanto sembri a prima vista: Leonardo quasi 29 milioni.

A favore di pochi grandi

Il sistema è fatto per favorire pochi colossi privati. Come conferma uno studio presentato all’Europarlamento, «la scadenza assai stretta dei bandi ha reso quasi impossibile l’ingresso di nuovi attori». Anche se in teoria i fondi sono anche per piccole e medie imprese, di fatto vanno perlopiù ai giganti, che sono gli stessi ad aver partecipato al «gruppo di personalità» e a fare attività lobbistica. Anche l’utilizzo dei fondi è orientato a loro favore: l’Ue finanzia la ricerca e lo sviluppo ma la proprietà intellettuale rimane in mano all’azienda che riceve i fondi pubblici.

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