Chissà se quando dice che «è l’ora della generosità» il socialista Pedro Sánchez sta pensando a tutte le concessioni che gli toccherà fare. Di sicuro questa «è l’ora», per lui: questo martedì il re di Spagna gli ha assegnato l’incarico di provare a formare un governo.

L’operazione Sánchez bis è ufficialmente partita: entro il 27 novembre va incassata la fiducia parlamentare. Per blindarla, il leader socialista deve tenere la galassia di indipendentisti compatta dentro la sua orbita, il che significa anzitutto – anche se non solo – concludere l’accordo sull’amnistia. Mentre le formazioni catalane competono fra loro al rialzo, gettando sul tavolo anche la carta del referendum, che Sánchez scarta, i popolari sono sul piede di guerra.

Domenica proveranno a gonfiar piazze con slogan anti amnistia, e in prima fila ci sarà Isabel Ayuso. Volto destro del partito, c’è da scommettere che sarà il volto di punta dei popolari se l’operazione Sánchez bis fallisce e si va al voto. Il premier socialista ha già fatto molti azzardi, comprese le elezioni anticipate, ed è sopravvissuto all’investitura di Alberto Núñez Feijóo che come si sapeva ha fallito. Con Ayuso il gioco si farebbe più duro: meglio sciogliere in fretta i nodi catalani.

PERCHÉ SÁNCHEZ

Il 22 agosto il re Felipe VI aveva affidato l’incarico al leader – ovvero al partito – più votato nelle elezioni di luglio: il popolare Alberto Núñez Feijóo. Il Partido Popular ha ottenuto più seggi, ma lo Psoe di Sánchez è quello che ha una vera chance di tenere insieme alleati a sufficienza e incassare la fiducia. Felipe VI ha optato per Feijóo, con il beneplacito di Sánchez, perché il fallimento della destra andava verificato e sancito.

Il popolare Mariano Rajoy avrà avuto il déja-vu della sua estate 2016, quando dopo un lungo stallo Felipe VI aveva assegnato a lui l’incarico; ma il parlamento lo aveva bocciato. È quel che è successo la scorsa settimana a Feijóo: sconfessione d’aula. Né il primo voto, che richiedeva una maggioranza assoluta e che si è tenuto il 27 settembre, né il voto di pochi giorni dopo, che avrebbe richiesto semplicemente una prevalenza di voti a favore, sono andati a segno.

Il re questo martedì ha concluso il nuovo round di consultazioni: l’incarico va al socialista.

Concessioni salvifiche

Ora Sánchez pensa a serrare le alleanze. Dato per assodato il legame con la sinistra di Sumar, la vera sfida è chiudere il patto con indipendentisti e nazionalisti. Il primo test – l’elezione di una socialista, Francina Armengol, come presidente della Camera – è andato a segno il 17 agosto: al Congreso c’è stata una maggioranza che ha aggregato Psoe, Sumar, Partito nazionalista basco, Bildu, Junts per Catalunya (la formazione guidata da Carles Puigdemont), Erc (la Sinistra repubblicana di Catalogna) e Bng.

Con questa galassia in generale, e con l’osso duro Puigdemont in particolare, i negoziati sono in corso da luglio e hanno portato ad alcune concessioni già formalizzate. L’introduzione di catalano, basco e galiziano come lingue co-ufficiali è stata già approvata dal Congreso a metà settembre, ed è in discussione anche a livello Ue. Il punto focale resta l’amnistia, sulla quale Sánchez si è detto aperto purché «nel rispetto della costituzione».

Di recente la Corte europea dei diritti dell’uomo ha auspicato «un accordo amichevole» sul tema, ma intanto il clima si inasprisce: l’avversario popolare è in attacco, mentre la competizione interna tra Erc e Junts stimola le richieste al rialzo. La scorsa settimana queste due formazioni hanno approvato, nel parlamentino catalano, una risoluzione per condizionare l’investitura di Sánchez a un referendum. Almeno su questo, il socialista pare proprio non (con)cedere.

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