È l’ennesimo spintone delle destre contro l’integrazione politica europea, ma questa volta punta alle fondamenta del progetto comune. Non soltanto i sovranisti e le destre estreme, ma anche la maggioranza dei popolari europei ha votato contro la risoluzione per la riforma dei trattati che la plenaria dell’Europarlamento ha approvato – non con grandi margini – questo mercoledì.

Che il plenipotenziario del Ppe, Manfred Weber, lasci il suo gruppo andare allo sbando e deflagrare su un tema chiave come la riforma dell’architettura istituzionale europea, è l’indice dello scarso investimento politico sull’integrazione politica. Dopo i leader, anche i gruppi: se già i pesi massimi come Emmanuel Macron o Olaf Scholz avevano abbandonato prospettive davvero ambiziose di riforma, ora anche l’Europarlamento, che una volta era l’apripista, si muove a fatica. Inoltre quello che una volta era il gruppo con più consensi, e che oggi per restare decisivo rincorre le destre estreme, deflagra con Weber a favore e Platforma di Donald Tusk contraria.

«I partiti di Adenauer, Schuman e De Gasperi non sono più per un’Unione sempre più integrata», dice a Domani il relatore verde del dossier, Daniel Freund. Eppure questo pare essere il migliore dei mondi possibili, il massimo che un federalista come lui abbia potuto ottenere, in un contesto nel quale sono pochi a scommettere su un radicale rilancio politico e democratico dell’Unione. Se non altro, dice Freund, «ora non si discute più su se cambiare i trattati, ma su quando» e ovviamente su come.

Cambiare forma all’Ue

Il deflagrare della guerra in Ucraina, ancor più che la troppo volatile conferenza sul futuro dell’Europa, pareva aver dato una spinta all’ipotesi di riformare l’architettura europea. Le destre vedevano un momentum per militarizzare di più l’Unione, e i sostenitori dell’allargamento a Est calcolavano che un’Ue con più membri deve necessariamente rivedere il suo assetto. Tutto ciò aleggiava già nei corridoi del vertice di Versailles a marzo 2022.

L’Europarlamento era l’avamposto di questo slancio per il cambiamento, ma presto i governi hanno messo il freno. La richiesta avanzata già nel 2022 per una convenzione non è stata neppure considerata dal Consiglio, così gli eurodeputati hanno precisato la loro proposta con punti specifici da modificare. Il voto recente nasce da questa esigenza: formulare una proposta perché finalmente i governi scelgano se aprire o no a una convenzione. Dopodiché se la si aprisse, sarebbe tutto da discutere.

Al momento il governo tedesco spinge sì per una riforma, ma funzionale all’allargamento. Ci sono buone probabilità che se mai il percorso di revisione si aprirà – e comunque sarà dopo le europee, con altri equilibri politici – volgerà a modifiche minime. Il voto di questo mercoledì all’Europarlamento attesta che neppure con la maggioranza attuale, e neppure nell’istituzione più europeista e progressista fra quelle Ue, c’è una grande spinta, né una grande ambizione.

Il gruppo socialdemocratico ha perlomeno inserito un afflato di politiche sociali, mentre i verdi un’attenzione a clima ed energia. Ma la proposta appena votata, con tutto che avrebbe assegnato all’Europarlamento piena iniziativa legislativa, è approvata con solo 291 voti favorevoli, 274 contrari e 44 astenuti.

Conservatori (l’Ecr di Meloni e del Pis) e Identità e democrazia (sovranisti lega inclusa) si sono tirati fuori già dai negoziati, ed erano contrari. E il Ppe? Weber ha dato libertà di voto, il gruppo si è diviso e la fetta più ampia ha votato contro. L’idea di passare da unanimità a maggioranza qualificata in quasi tutti i campi disturba molte delegazioni, e per prima quella polacca di Platforma.

«Non siamo contro l’integrazione europea», si schermisce Donald Tusk. Che però è preso dalle dinamiche interne, con i nazionalisti del Pis pronti a puntargli il dito contro, e finisce per citare come riferimento Londra: «Una delle ragioni per le quali il Regno Unito ha lasciato l’Ue è proprio un euroentusiasmo ingenuo e talvolta insopportabile».

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