Snobbati dai governi, abbandonati dai leader, nella quarta settimana di novembre gli eurodeputati, con un voto in plenaria, spingeranno per una riforma dei trattati. Ovviamente si defileranno sovranisti e conservatori, i gruppi di riferimento di Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Nella migliore delle ipotesi gli eletti europei, che sono a fine mandato, otterranno che se ne riparli dopo giugno 2024.

E già da qui si vede la distanza siderale che ci separa da un altro novembre, il primo novembre 1993, sempre autunno, ma tutt’altra stagione per l’integrazione europea. Trent’anni fa è entrato in vigore il trattato di Maastricht. La Comunità economica europea ha assunto i connotati di Unione europea.

Quei pezzi di carta, firmati a febbraio dell’anno prima nella cittadina sulle rive della Mosa, non vanno trasformati né in feticci né in santini. In quelle righe ci sono anche errori. Neppure negli anni Novanta l’integrazione europea ha avuto santi in paradiso. Ma per certo ha trovato leader e visioni. Oggi l’Europa a due velocità di Jacques Delors sta diventando semplicemente una integrazione al rallentatore.

Luci e ombre di Maastricht

Soltanto col trattato di Lisbona l’Ue ha assunto personalità giuridica, e quindi capacità di gestione autonoma delle risorse. Ma è stato trent’anni fa che l’Ue, per come la conosciamo oggi, ha iniziato a strutturarsi, ed è con Maastricht che è stata battezzata la «cittadinanza» europea. È in quel punto della storia che si strutturano i tre pilastri, uno comunitario con caratteri prefederali, e gli altri due – politica estera e di sicurezza, giustizia e affari interni – intergovernativi.

Ma tutto ciò non basta a cogliere in che modo il 1993 abbia fatto la differenza. Per orientarsi nel processo di integrazione bisogna tener presente tre bussole, tre paradigmi. Ai versanti opposti, ci sono il federalismo e l’Europa delle patrie. L’europeista Altiero Spinelli e il nazionalista Mateusz Morawiecki si collocano in questi poli opposti. Nel mezzo c’è il funzionalismo, la terza via, e anche quella finora più battuta: l’idea è che possa essere l’integrazione economica a fare da apripista verso un’unione politica, pur ribadendo le prerogative dei singoli stati.

Questa “terza via” è la via di Maastricht e del suo animatore, Jacques Delors, presidente della Commissione europea tra il 1985 e il 1995, europeista convinto che il pragmatismo fosse la strada migliore per procedere. Interessante che il «federalismo pragmatico» sia stata l’espressione scelta da Mario Draghi nel 2022, per il suo intervento da premier all’Europarlamento, nel quale elencava le priorità e concludeva: «Se ciò richiede la revisione dei trattati, la si abbracci». Per Delors l’integrazione doveva pragmaticamente procedere per settori e a diverse velocità. Il nucleo era una comunità con una sua politica economica e monetaria. Unirsi su questo significava prevedere una valuta comune (e infatti i parametri di Maastricht regolavano l’adozione dell’euro) e un’autorità monetaria centrale (che oggi è la Bce).

L’accresciuto interesse del mondo produttivo – si pensi al programma “Europa 90” presentato da Wisse Dekker, presidente di Philips, e che segnava il disancoraggio della grande industria europea dallo scetticismo anni Sessanta – ha favorito la svolta. Le pieghe che ha preso non sono dipese solo da Delors, che spingeva per il libero mercato ma contemplava una vocazione sociale e aveva persuaso pure i sindacati britannici sul progetto europeo. Spiega bene l’economista Umberto Triulzi che il disegno finale dell’Unione economica e monetaria rivela un’impostazione «molto più vicina alle posizioni sostenute dai paesi a valuta forte, con bassi disavanzi di bilancio e bassi tassi di inflazione».

Questa impostazione si riflette nella definizione degli obblighi di bilancio. Parte da Maastricht anche la politica rigorista che orienta il Patto di stabilità, il cui intento politico viene concordato nel Consiglio europeo di Dublino del 1996 e formalizzato subito dopo con il trattato di Amsterdam.

Patto democratico a rischio

«I risultati di un grande negoziato non sono mai l’ideale per nessuno», diceva il successore di Delors, Jacques Santer, la cui Commissione europea si è chiusa negli scandali. Nonostante le novità che ha introdotto, Maastricht ha lasciato orfani gli eurodeputati che chiedevano di ridurre il deficit democratico e gli europei che aspettavano politiche sociali. I britannici hanno cominciato con l’opt-out dall’euro, e oggi sono a Brexit. I danesi avevano votato contro Maastricht al referendum, e poi li hanno seguiti i francesi nel 2005 stroncando il progetto di Costituzione europea.

Tuttavia nel 1993 c’era uno slancio e c’erano leader, concorda lo storico dell’integrazione europea Mauro Maggiorani: «A voler misurarla col termometro, la febbre europeista era alta. Dopo il crollo del muro, c’era l’idea che l’Ue potesse incarnare una nuova via, diventare maggiorenne rispetto agli Usa e aspirare a un ruolo internazionale autonomo. Di tutto quello slancio resta poco». E anche i leader si sono dati alla fuga.

Eppure il momento c’era, almeno dalla pandemia in poi: si è conclusa la conferenza sul futuro dell’Europa, c’è stato uno slancio per l’allargamento a cominciare dall’Ucraina, e le crisi multiple hanno reso imprescindibile più unione, oltre a dar adito nei fatti a più margini di manovra per Bruxelles, tantopiù con una presidente accentratrice come Ursula von der Leyen. Ma Emmanuel Macron, resosi conto che la riforma dei trattati entusiasmava ben pochi governi, si è accontentato di battezzare una “comunità europea” che ha già rivelato tutti i suoi limiti. Olaf Scholz, che nel programma di coalizione aveva velleità europeiste, a detta dei suoi stessi alleati verdi ha abbandonato le vesti di leader europeo.

I governi hanno per ora ignorato la richiesta degli eurodeputati di aprire una convenzione – che è il prodromo della riforma dei trattati – così ora l’Europarlamento torna alla carica con una dettagliata lista di modifiche. La plenaria le approverà a novembre. Se anche i capi di stato e di governo dovessero abbozzare, se ne parlerà dopo le elezioni del 2024. Sempre che gli esiti del voto lascino margini all’ideale europeo, schiacciato tra sovranismi e pragmatismi.

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