«Brexit means Brexit» diceva il premier britannico Theresa May all’indomani del referendum del 2016. Anche se era stata una partigiana, tiepida, del remain e non della fuoriuscita dall’Unione europea, si era resa conto che era stata adottata una scelta senza ritorno. Aveva tentato in qualche maniera di trovare la via di uscita più morbida possibile, ma i veti incrociati e le incredibili sedute a Westminster dove i partiti votavano divisi su tutto e spesso contro i propri provvedimenti, avevano portato la Gran Bretagna sull’orlo di una crisi di nervi. La defenestrazione di May e l’ingresso a Downing Street dell’istrione Boris Johnson ha capovolto la situazione.

Puntando l’occhio alla situazione interna Johnson ha accelerato sull’uscita, da compiere a ogni costo. In questo modo metteva in difficoltà un Partito laburista impantanato, incerto sulla via da imboccare perché profondamente diviso al suo interno, con una base operaia sovranista, di brexiter duri, e una classe media metropolitana e cosmopolita aggrappata alle scogliere di Calais. Portando il paese alle urne con il solo tema della Brexit Johnson ha tolto spazio politico ai laburisti e gli ha strappato seggi in cui vincevano fin dagli anni Venti. Con una maggioranza sicura il premier inglese ha contrattato il “deal” fino all’ultimo, senza remora alcuna al punto da far stracciare al parlamento l’accordo internazionale siglato mesi prima con la Ue sulla questione del confine tra la Repubblica irlandese e l’Irlanda del Nord. Ora che alla fine l’uscita è stata siglata con un testo di più di mille pagine e vari addendum quali effetti avrà sull’Unione europea?

In termini economici gli scenari sono diversi ma tutti concordano nel prevedere un brusco calo dell’economia britannica e un effetto di rallentamento su quelle europee dovuto alla fine del mercato unico e della libera circolazione delle merci e dei servizi. Ciò significa che anche se sono stati fortunatamente esclusi i dazi, i controlli doganali per le questioni di conformità creeranno intoppi alle frontiere e, a monte, ridefinizioni degli standard produttivi in una miriade di industrie. Di conseguenza l’economia dell’Unione europea , nell’immediato, si riduce di dimensione e valore, e il suo potere negoziale con le altre superpotenze economiche potrebbe quindi diminuire.

Guardare a est

Non è allora un caso che, quasi in contemporanea con la definizione della Brexit, l’Ue, guidata in questo semestre dalla Germania, abbia concluso un importante accordo quadro con la Cina, peraltro in gestazione da molti anni. Angela Merkel, d’intesa con la Commissione di Ursula von der Leyen, ha fortemente voluto definire le relazioni commerciali con la Cina. In questo modo la Germania può continuare a profittare di un mercato vitale per i suoi prodotti, dato che l’export tedesco verso la Cina vale un terzo di tutto l’export europeo verso quel paese. Ma questa accelerazione ha un significato ulteriore, anzi, più d’uno.

Il primo è che, anche senza la Gran Bretagna, l’Ue ha ancora voce in capitolo nelle trattative economico-commerciali con il resto del mondo. Ciò vale anche per gli Stati Uniti perché non è detto quanto la nuova presidenza voglia o possa modificare il protezionismo trumpiano. Il secondo è che l’Ue sta prendendo coscienza che può muoversi nello scacchiere internazionale più liberamente, senza gli impacci dovuti alla costante opera di freno, al limite del sabotaggio, esercitato dai britannici.

Una postura più assertiva comporta però una ever closer union, una unione sempre più stretta, come recita il motto dell’Ue. E maggiore integrazione implica maggiori impegni e doveri. Un passo importante in questa direzione è stato già compiuto l’anno scorso, sull’onda dell’emergenza quando si sono mutualizzati i debiti. Ma il Recovery plan rimane pur sempre nel terreno economico, un terreno di gioco conosciuto per l’Unione. I passi successivi in direzione di una maggiore integrazione riguarderanno, inevitabilmente, le questioni della sicurezza e dalla politica estera comune. Ma sono ancora in alto mare nonostante i cittadini europei esprimano, nei sondaggi periodici dell’Eurobarometro, un sorprendente consenso all’ipotesi di un esercito europeo e di una politica estera comune.

Guardare Berlino 

E soprattutto necessitano di una guida; che spetta, inevitabilmente, alla Germania. Con l’addio alla politica della “ragazza” che veniva dall’Est, la nuova leadership tedesca avrà il compito di condurre l’Unione a nuova, maggiore consapevolezza della sua forza sul piano internazionale perché la Cina incombe pericolosamente e l’America non è guarita dall’infezione trumpiana (ricordiamo che due terzi dei repubblicani pensano che le elezioni siano state truccate!). Il baricentro dell’Ue si è spostato dalle rive del Reno a quelle della Oder Neisse, dalla dorsale renana alla Lega neo-Anseatica dei porti baltici e scandinavi. La Germania assicura equilibrio a questo spostamento. Questo paese, finalmente libero dalla tutela dei “vincitori” franco-inglesi, per debolezza l’uno, per abbandono l’altro, dovrà trovare un cancelliere all’altezza della sfida. Le elezioni per il Bundestag del prossimo settembre sono la scadenza politica più importante del 2021.

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