Uno scontro così teatrale, e così teatralizzato, non si era mai visto. Nell’emiciclo di Strasburgo, è arrivato il premier polacco per dibattere sulla «crisi dello stato di diritto e supremazia dell’ordinamento europeo»: in una parola, Polexit. A difendere Mateusz Morawiecki, solo conservatori e sovranisti; tra gli italiani, Lega e Fratelli d’Italia.

Tutti gli altri, compresi gli eurodeputati polacchi di opposizione e la presidente della Commissione europea, hanno usato toni duri. Più che uscire dalla crisi, è andata in scena la sua escalation. In molti hanno accusato il governo polacco di derive autoritarie, il governo a sua volta ha accusato l’Ue di imporre i suoi diktat, mentre Ursula von der Leyen ha promesso di difendere i trattati «con ogni mezzo».

Ma non bisogna fermarsi alle apparenze. Come in ogni teatro, c’è una scena pensata per un certo pubblico, e poi c’è il dietro le quinte: alcuni governi, Angela Merkel per prima, spingono per il compromesso. Morawiecki e von der Leyen non a caso già si avvicinano sul tema di abolire la camera disciplinare polacca, che sanziona i giudici non allineati con l’esecutivo.

La escalation

Con Polexit, le tensioni tra Europarlamento e Varsavia raggiungono il culmine. Il conflitto sullo stato di diritto dura da anni. A esasperarlo sono stati già le limitazioni al pluralismo dei media, la repressione nei confronti della comunità Lgbt, e gli attacchi ai diritti delle donne. Proprio un anno fa, la Corte costituzionale polacca irrigidì ancor di più il divieto di aborto.

In questo lungo elenco di violazioni, quella cardinale è lo squilibrio di poteri: come la Corte di giustizia europea sentenzia ripetutamente da anni, in Polonia l’indipendenza dei giudici dall’esecutivo è tutt’altro che garantita. Il premier Morawiecki, invece di ripristinare l’equilibrio, ha sfidato quei pronunciamenti europei, e in primavera si è rivolto alla corte costituzionale polacca. Quest’ultima ha tenuto fermo il responso per mesi. Poi, proprio mentre il governo cominciava a spazientirsi perché Bruxelles non dava il via libera al suo piano di Recovery, e quindi ai fondi, il 7 ottobre la corte polacca ha emesso il verdetto-bomba.

«Quella sentenza – commenta l’eurodeputato liberale Guy Verhofstadt – dice che gli articoli 1 e 19 del trattato sull’Ue sono in contraddizione con la costituzione polacca. Peccato che, entrando nell’Ue, la Polonia abbia accettato i trattati, e lo stesso partito di governo Pis ha concordato il trattato di Lisbona. Gli unici ad aver contestato quegli articoli in nome della sovranità finora sono stati i sostenitori della Brexit». I cittadini polacchi sono tra i più europeisti dell’Unione, il leader di opposizione Donald Tusk lo sa e domenica 10 ne ha raccolti in piazza a migliaia per protestare contro Polexit.

Dunque in aula il premier polacco si è affrettato a chiarire che non è intenzione della Polonia uscire dall’Ue. Ma ha insistito: «La nostra fonte primaria del diritto è la costituzione, l’ordinamento europeo ha la priorità solo per le competenze che lo stato sovrano delega all’Ue».

La scena e il pubblico

«Pensavamo, signor primo ministro, che lei avrebbe evitato l’escalation e fatto un passo indietro. Invece spinge il suo paese sull’orlo del burrone, e fa pure una cosa mai vista prima: si porta dietro la claque per farsi applaudire», dice Iratxe García Pérez, la presidente del gruppo socialdemocratico. «Lei viene qui con la stessa attitudine di chi è in piena campagna elettorale», nota Ska Keller che guida gli eurodeputati verdi. I toni di Morawiecki sono volutamente sfrontati; la dimostrazione più eclatante arriva quando gli viene segnalato che il tempo di parola è finito da tempo, e lui con modo sfacciato dice «non mi disturbi!». Il suo discorso è pensato anzitutto per il pubblico domestico: l’obiettivo è dimostrare che non è l’Ue a mettere in riga il Pis, ma il Pis a difendere «la sovranità e l’orgoglio» della patria. Una retorica pensata per compattare la propria coalizione e il proprio elettorato, come del resto osservano molti opinionisti polacchi sulle testate indipendenti. Anche von der Leyen usa toni duri per sedare le critiche interne. Ad esempio, quella che le arriva dal vicepresidente di Renew, il liberale Malik Azmani: «Da anni lei ci viene a raccontare che è “molto preoccupata”, e da anni noi eurodeputati le chiediamo invano di agire». Nel paese di Azmani, l’Olanda, pure i deputati nazionali hanno votato per iniziative più incisive. «Non ci possiamo permettere altri due anni di melina». Ecco perché von der Leyen, eletta presidente con i voti del Pis, usa toni intransigenti: deve rassicurare un Europarlamento che è pronto a sfidare lei stessa davanti alla Corte di giustizia europea. Nel 2020 è stato approvato il meccanismo che condiziona i fondi Ue al rispetto dello stato di diritto, ma Bruxelles non lo attiva.

I compromessi e gli scenari

Tra le righe delle loro arringhe, Morawiecki e von der Leyen lasciano tracce delle loro intenzioni. La Commissione, che in teoria è guardiana dei trattati, valuta una procedura di infrazione contro la Polonia, e sa di avere a disposizione il meccanismo di condizionalità e la procedura dell’articolo 7. Soprattutto, tiene in ostaggio i fondi: von der Leyen ha detto esplicitamente che «non ci sarà via libera al piano di Recovery se il paese non segue la raccomandazione di garantire l’indipendenza dei giudici, se quindi non elimina prima la camera disciplinare e se non reintegra i giudici licenziati in modo illegittimo». Morawiecki dal canto suo ha annunciato in aula l’intenzione di abolire la sezione disciplinare, «non ha funzionato come volevamo». Su questo si intravede quindi un punto di incontro, anche se non risolve la questione di fondo dello stato di diritto. Ma Merkel, preoccupata di placare l’opposizione polacca a Nord Stream 2, da giorni propugna «dialogo» e insomma compromesso. Persino l’Eliseo, pur di portare Varsavia nella battaglia pro nucleare, si è ammorbidito. Ancora una volta, a dispetto dello zelo degli eurodeputati, un pugno di governi di peso lavora per attenuare le reazioni europee alle derive polacche, tanto che il tema rimane fuori dall’agenda del prossimo Consiglio europeo. Una capitale su tutte invoca il «dialogo», ed è Berlino: anche se sta per lasciare il cancellierato, Merkel continua la strategia del compromesso che è all’origine di questa crisi, e prima ancora, delle derive orbaniane.

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